Alla nozione e alla disciplina dell’azienda il Legislatore dedica un nucleo ristretto di norme - racchiuso essenzialmente nel Titolo VIII del Libro V del Codice Civile (artt. 2555-2574 c.c.) – dal quale si ricava la tradizionale definizione di “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
Essa pone l’accento sulla connotazione statica che caratterizza il complesso dei beni analizzato sotto il suo profilo empirico-strutturale in contrapposizione col dinamismo proprio dell’attività d‘impresa, finalizzata alla produzione e/o allo scambio di beni o servizi.
Tuttavia, proprio questa scelta di politica legislativa, improntata al rigore definitorio, se per un verso ha avuto storicamente il pregio della chiarezza e della concisione espositiva, per altro verso ha lasciato insolute questioni ermeneutiche di primaria importanza affidandone la risoluzione all’interprete.
Prima di analizzare nel dettaglio l’arresto giurisprudenziale in commento, appare opportuno precisare i termini della questione enunciata e risolta con la formulazione di un principio di diritto da parte della Suprema Corte.
In particolare, ad ampio e appassionato dibattito ha condotto la problematica vertente sulla natura giuridica dell’azienda. Essa ha determinato lo sviluppo di una variegata letteratura sull’argomento, i cui approdi ruotano intorno a tre interpretazioni fondamentali.
Secondo una prima ed autorevole linea di pensiero ([1]) – ormai piuttosto risalente – l’azienda rientra nel genus dei beni cd. immateriali, identificandosi non già nel complesso dei cespiti aziendali, quanto piuttosto nella organizzazione e nell’insieme dei collegamenti funzionali tra di essi intercorrenti.
In altri termini, il bene azienda appare distinto dalle sue singole parti materiali, che ne rappresentano accessori indissolubili, conformemente ad un rapporto di subalternità funzionale, caratterizzandosi, invece, per la peculiare tutela offerta dall’ordinamento in materia di divieto di concorrenza (art. 2257 c.c.) e di trasferimento, sia per atto tra vivi che mortis causa.
Da tale premessa ne discende l’assoggettabilità tout court al regime giuridico delle pertinenze, riassunto nel celebre brocardo latino accessorium sequitur principale (art. 818 c.c.).
In contrario, si è obiettato in giurisprudenza ([2]) che la natura giuridica dell’istituto deve essere indagata, con riguardo ad una precisa impresa, attraverso un criterio oggettivo che ne metta in luce il complesso delle res produttive, conformemente alla lettura piana dell’art. 2555 c.c.
Una seconda interpretazione – prevalentemente sostenuta in dottrina ([3]) – analizza la questione sotto una prospettiva comune a quegli Autori ([4]) che, negando il carattere unitario delle universalità patrimoniali, pervengono ad una nozione decostruita di azienda.
Il parallelismo si pone, invero, con riferimento alla tesi cd. atomistica, secondo cui i beni (mobili, immobili e mobili registrati) organizzati dall’imprenditore non costituiscono un universum complessivamente inteso, quanto la mera sommatoria di entità individuali e distinte, caratterizzate dalla particolare destinazione all’esercizio dell’impresa.
Pertanto, l’azienda non può costituire oggetto di un diritto reale unitario, ma anzi la terminologia adoperata dal legislatore nella disciplina dell’istituto assume valenza sintetica ed esemplificativa.
In tale contesto una prima conferma si rinviene nel requisito della forma scritta, richiesta ad probationem per il trasferimento dell’azienda dall’art. 2556, comma 1 c.c. – ove è fatta “salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto”; proprio il riferimento ai singoli beni (ed al loro particolare regime di trasferimento) finisce per negare unità giuridica all’istituto in parola.
In contrapposizione a qualsivoglia tesi “unitarista” si è inoltre sostenuto che l’art. 816 c.c., sin dalla rubrica, sembra restringere il suo ambito applicativo ai soli beni mobili, i quali rappresentano – in un’ottica anche economica – una porzione non esaustiva dell’eterogeneo complesso dei beni costituenti l’azienda.
Secondo una qualificata interpretazione – suffragata, peraltro, da una copiosa giurisprudenza di legittimità ([5]) – l’azienda afferisce alla nozione generale di universitas rerum, contraddistinta dalla compresenza di un requisito oggettivo (pluralità di cose) e di un requisito soggettivo (appartenenza al medesimo soggetto) combinati secondo il nesso teleologico della destinazione unitaria.
Sul punto appare ormai classica la distinzione tra universalità di fatto e universalità di diritto, fondata sulla fonte di produzione del fenomeno, la quale può discendere o dalla volontà dei privati (universitas facti: ad es. una biblioteca) ovvero dall’impulso unificatore della legge (universitas iuris: ad es. l’eredità, intesa quale complesso di rapporti giuridici attivi e passivi riconducibili alla figura del de cuius).
Orbene, nell’ambito della teoria in esame si fronteggiano due diverse letture interpretative.
Una parte autorevole della dottrina ([6]) qualifica l’azienda in termini di universalità di fatto fondando tale assunto sulla lettura combinata degli artt. 2555-2556 c.c.
In particolare, la lettera della legge parla di complesso di “beni” in senso restrittivo; pertanto, le norme andrebbero lette secondo uno schema che esclude sia crediti – afferenti alla categoria dei diritti relativi – sia debiti nonché altri rapporti di collaborazione lavorativa nell’impresa, in quanto estranei alla nozione di bene in senso stretto come offerta dall’art. 810 c.c.
Debiti e contratti di lavoro, del resto, mostrano i caratteri propri delle passività non solo in senso giuridico – come fonti di obbligazioni per l’imprenditore – ma anche sotto il profilo strettamente economico-contabile. Ne risulta, pertanto, quanto meno ardita la collocazione all’interno del coacervo aziendale, attesa l’insussistenza di qualità positivamente apprezzabili.
Sul punto anche la giurisprudenza meno recente ha stabilito ([7]) che “per determinare quali elementi possano ritenersi costituire l’azienda, occorre stabilire, in base agli artt. 810 e 813 c.c., quando tali elementi possano effettivamente considerarsi beni (…)”, adoperando gli schemi ermeneutici propri del diritto comune ed in aderenza ai principi generali dell’ordinamento giuridico.
Un’altra interpretazione ([8]) - parimenti autorevole e diffusamente seguita dalla giurisprudenza più recente – si schiera in favore di una qualificazione del complesso aziendale in termini di universalità di diritto, facendo leva su di una duplice serie di motivazioni.
In primo luogo, si è sostenuto che l’esercizio dell’attività d’impresa, condotta con metodo professionale, impone di considerare “parte” dell’azienda ogni entità economicamente apprezzabile, di cui sia titolare l’imprenditore, ricorrendo a un’accezione interpretativa quanto più ampia possibile.
In secondo luogo, è il Legislatore stesso a premere per una nozione estensiva di azienda, come confermato dall’art. 2558 c.c., che dispone il subingresso automatico del cessionario nei contratti stipulati dall’imprenditore cedente, salvo il patto contrario e l’esclusione dei contratti permeati dal cd. intuitus personae.
Peraltro, anche la dettagliata disciplina circa la sorte dei crediti e debiti aziendali (cfr. artt. 2559-2560 c.c.) manifesta proprio quella volontà legislativa diunificare beni ed altre utilità oggettivamente disomogenee secondo i caratteri del citato fenomeno dell’universitas iuris.
Aderendo a tale ricostruzione si conclude per la ammissibilità di un negozio dispositivo avente ad oggetto l’azienda nella sua interezza, come peraltro confermato in materia di cessione d’azienda, ovvero per la costituzione di diritti reali minori (in primis, il diritto di usufrutto) sul complesso aziendale.
Venendo ora all’analisi del pronunciamento in oggetto, le Sezioni Unite della Suprema Corte sono state investite del compito di risolvere il dilemma se fossero usucapibili ex art. 1160 c.c. i beni costituenti l’azienda (nella fattispecie analizzata, una farmacia).
È da premettersi che il Collegio non assume una posizione netta in ordine alla natura giuridica dell’azienda, ma passando brevemente in rassegna le principali ricostruzioni teoriche, mostra al più una particolare predilezione per la tesi cd. universalistica, peraltro dominante in giurisprudenza.
L’iter logico seguito, infatti, ha come precipuo obiettivo quello di ricondurre la materia del contendere nell’alveo della disciplina dei beni giuridici, qualificando l’azienda in termini di “cosa” passibile di possesso ad usucapionem.
Dalla lettura dell’art. 2555 c.c. ben si comprende come il Legislatore - lungi dal proporre ricostruzioni oltremodo teoriche del fenomeno – inquadri l’azienda nella sua relazione dinamica con l’attività d’impresa, tale da consentire che essa, complessivamente considerata, divenga oggetto di diritti e di negozi giuridici.
In altri termini, la legge sembra descrivere il fenomeno aziendale alla stregua di un unicum, permeato dal rischio imprenditoriale, che costituisce un centro d’interessi, diritti ed obbligazioni, del tutto autonomo rispetto ai singoli beni da cui è composto.
Per ottenere la riprova di quanto affermato si rende opportuno, allora, procedere a una duplice analisi.
La prima attiene all’esistenza della nozione obiettivizzata di azienda alla luce del dato normativo positivo; la seconda riguarda più specificamente la configurabilità di un possesso aziendale.
Un primo indice legislativo si rinviene in materia di sequestro giudiziario (art. 670 c.p.c.), ove si consente l’applicazione della misura cautelare su “(…) aziende o altre universalità di beni, quando ne è controversa la proprietà o il possesso (…)”.
La norma citata, se da un lato fornisce un chiaro indizio circa la natura giuridica dell’istituto in esame, dall’altro funge da chiave di lettura privilegiata per riconoscerne entità autonoma, sia materiale sia, soprattutto, giuridica.
Se il sequestro, infatti, può essere accordato dal giudice ove risulti incerta la titolarità dell’azienda, bisogna considerare preliminarmente incardinato un giudizio di tipo petitorio (artt. 948-951 c.c.) ovvero possessorio (artt. 1168-1172 c.c.), corredato da ragioni di fatto e di diritto, nonché da adeguati mezzi probatori a sostegno dell’esistenza o meno della signoria sul complesso aziendale (cd. fumus boni iuris).
Ancora, dalla lettura combinata delle disposizioni inerenti l’usufrutto (art. 2561 c.c.) e l’affitto di azienda (art. 2562 c.c.) appare manifesta l’intenzione legislativa di offrire adeguata tutela all’integrità aziendale, dimostrata per l’appunto da una puntuale definizione degli obblighi a carico del titolare. Ne consegue, pertanto, il tacito riconoscimento di quel sostrato di unità formale e sostanziale sul quale riposa la nozione oggettivata di azienda.
Resta, a questo punto, da dimostrare il rapporto tra possesso e azienda.
La riflessione deve prendere le mosse dalla nozione stessa di possesso, che ai sensi dell’art. 1140, comma 1 c.c. viene definito come “il potere di fatto sulla cosa, che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”.
In tale ambito linguistico, il termine “cosa” è adoperato in senso (volutamente) generico con l’intento di fornire una disciplina unitaria a fattispecie obiettivamente eterogenee.
Per tale via, si consente l’esercizio del possesso (e delle relative azioni a tutela del medesimo) non solo su beni materiali, ma anche sulle cd. immaterialità reali, quali ad esempio l’opera dell’ingegno, il marchio, il brevetto e, finanche, il software.
In difetto di norme contrarie sul punto, non appare perciò lecito restringere la portata del corpus et animus possessionis, soprattutto alla luce della dimostrata autonomia dell’azienda rispetto ai singoli beni che la compongono.
In conclusione – aderendo al principio di diritto emanato dalle Sezioni Unite della Cassazione – non vi è motivo per negare l’acquisto dell’azienda per usucapione, sempreché ne sussistano i requisiti oggettivi di natura spazio-temporale (cfr. artt. 1158 – 1163 c.c.). E ciò a nulla rilevando il problema circa la natura giuridica dell’istituto, considerato il suo carattere di autonomo centro d’imputazione di diritti ed obblighi.
L’azienda, pertanto, pur mantenendo le peculiarità che la caratterizzano, può essere equiparata ad ogni altra “cosa” suscettibile di acquisto non solo derivativo, ma anche a titolo originario.
[1]F. FERRARA JR, La teoria giuridica dell’azienda, 1949.
[2]Cass. 27 febbraio 2004, n. 3973.
[3]T. ASCARELLI, Lezioni di diritto commerciale. Introduzione, 1954; G. AULETTA, Dell’azienda, in Commentario del Codice Civile, a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, 1964; G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1. Diritto dell’impresa, 2007.
[4]N. COVIELLO, Delle successioni. Parte generale, 1935; F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 1990.
[5]Ex multis, Cass. 13 luglio 1973, n. 2031, Cass. 7 ottobre 1975, n. 3178, Cass. 22 marzo 1980, n. 1939, Cass. 15 gennaio 2003, n. 502).
[6]G. COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale, 2000; G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. ANGELICI e G.B. FERRI, 2001; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, 2009.
[7]Cass. 27 novembre 1971, n. 3461; cfr. anche Cass. 10 marzo 1980, n. 1584.
[8]In dottrina, F. SANTORO PASSARELLI, op. cit., 1990; L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. Dir. Civ. e comm., diretto da A. CICU e F. MESSINEO, 2000; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 2006.
In giurisprudenza, tra le molte, Cass. 29 agosto 1963, n. 239; Cass. 9 giugno 1981, n. 3723; Cass. 15 gennaio 2003, n. 502).