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LA (CONTRO) RIFORMA DEL TITOLO V. PRIME OSSERVAZIONI SUL D.D.L. COST. A.S. 1429-A, XVII LEGISLATURA

by Daniele Coduti ricercatore di Diritto costituzionale on02 Agosto 2014

1. Il Governo Renzi ha presentato alle Camere un disegno di legge costituzionale volto a modificare profondamente la Costituzione, cercando altresì di garantirne la rapida approvazione. L’aspetto di tale progetto di riforma costituzionale sul quale si stanno maggiormente confrontando sia le parti politiche sia l’opinione pubblica è quello del superamento del bicameralismo paritario, connesso, peraltro, alla riforma (anch’essa ancora in fieri) della legge elettorale. Tuttavia, la proposta di riforma costituzionale intende intervenire anche sul Titolo V della Parte II della Costituzione, già ampiamente novellato con le leggi costituzionali n. 1 del 1999 e n. 3 del 2001.

Il progetto del Governo, peraltro, ha subito importanti modifiche nella Commissione affari costituzionali del Senato, sicché il testo attualmente in discussione in Parlamento (d.d.l. cost. A.S. 1429-A, XVII Legislatura) è alquanto differente da quello proposto dal Governo. In queste pagine si esaminerà proprio il testo predisposto dalla Commissione, nella parte dedicata a quello che potrebbe diventare il nuovo Titolo V, evidenziandone alcuni degli aspetti più significativi e problematici.

2. Il primo aspetto della riforma sul quale occorre soffermarsi è quello della soppressione di uno degli enti territoriali costitutivi della Repubblica: la Provincia. Tale ente territoriale – a torto o a ragione – è divenuto l’emblema dell’insostenibile aumento dei costi della politica, un tema particolarmente sentito in periodo di crisi economica; sicché numerosi sono stati i tentativi recenti di accorpare[1], riformare[2] o sopprimere[3] l’ente, i quali, tuttavia, hanno sollevato più di un dubbio di legittimità[4], considerato che – alla luce dell’art. 114 Cost., riformato nel 2001 – la Provincia ha la medesima dignità costituzionale degli altri enti territoriali costitutivi della Repubblica, Stato compreso.

Con la proposta di riforma di cui si discute si punta alla soppressione della Provincia, utilizzando l’unica modalità che pare tecnicamente corretta: la riforma costituzionale. Il d.d.l. cost. A.S. 1429-A, infatti, prevede di cancellare il riferimento alle Province da ogni articolo della Costituzione che le cita, eliminando, così, l’ente territoriale dal novero di quelli costituzionalmente garantiti; tuttavia, è opportuno valutare le ragioni ispiratrici e le conseguenze di tale soppressione.

La soppressione di tale ente mira a garantire un contenimento della spesa pubblica, anche perché è innegabile che l’articolazione territoriale immaginata dai costituenti nel 1947 sia stata profondamente modificata nel corso degli anni. Basti pensare all’inopinato aumento del numero delle Province o alla previsione in Costituzione della Città metropolitana[5], un ente territoriale che – per certi versi – si sovrappone alle Province, seppure solo in limitati casi. Tuttavia, una riforma costituzionale non dovrebbe attuarsi per far fronte a situazioni contingenti – per quanto gravi – come una fase di crisi economica, bensì per rappresentare il punto di riferimento e la garanzia di tenuta di un sistema in un orizzonte temporale medio-lungo, durante il quale si affrontano fasi alterne (economiche e non solo), che non possono essere sempre causa di nuove e occasionali riforme costituzionali. Motivazioni alla base della riforma costituzionale in questione, piuttosto, dovrebbero essere l’utilità dell’ente e l’efficienza della forma di Stato. Dunque, sebbene appaia criticabile l’aumento del numero di Province al quale si è assistito dal 1948 ad oggi, è ragionevole ritenere che – nelle Regioni di maggiori dimensioni e con significative differenze territoriali – un ente deputato a svolgere in maniera unitaria le funzioni di area vasta possa essere necessario. Ciò non deve essere sfuggito neanche in sede di redazione del progetto di riforma costituzionale, perché l’art. 117, co. 2, Cost., nel testo predisposto dal Governo, assegnava allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento degli enti di area vasta”, mentre, nel testo redatto dalla Commissione affari costituzionali del Senato tale riferimento manca. Tuttavia, l’art. 39, co. 4, del d.d.l. cost. A.S. 1429-A, recante le “disposizioni finali”, afferma: «Fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale». Pertanto, sebbene non sia chiaro il rapporto tra tale ultima previsione e la soppressione della competenza statale in tema di ordinamento degli enti di area vasta, la cancellazione delle Province come enti costituzionalmente tutelati forse non comporterà la definitiva scomparsa di enti intermedi tra Regioni e Comuni; in questo senso, pare significativo che la stessa l. n. 56 del 2014 (c.d. legge Del Rio) qualifichi le Città metropolitane e le Province come «enti territoriali di area vasta»[6].

3. Il secondo profilo di interesse per l’ipotizzata riforma del Titolo V è rappresentato dalla modifica del riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni dettato dall’art. 117 Cost.

Innanzitutto, la riforma intende superare la previsione di una potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, prevista sia dal vigente art. 117, co. 3, sia dall’art. 117, co. 1, Cost. nel testo anteriore alla riforma costituzionale del 2001, che attualmente si affianca a quella esclusiva statale ed a quella residuale delle Regioni. Quella concorrente è una tipologia di potestà legislativa foriera di incertezze a causa della necessità di distinguere tra disciplina di principio (di competenza statale) e disciplina di dettaglio (di competenza regionale) nell’ambito della medesima materia, il che ha anche contribuito ad incrementare il contenzioso tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale.

Il nuovo art. 117 Cost., invece, dovrebbe contemplare solo due tipologie di potestà legislativa: quella esclusiva statale, da esercitarsi nelle materie elencate nel co. 2 dell’art. 117 Cost.; quella regionale, da esercitarsi sia nelle materie elencate nel co. 3 dell’art. 117 Cost. sia in quelle non espressamente riservate alla competenza esclusiva dello Stato.

Così sintetizzato, il riparto della potestà legislativa sembrerebbe porre meno problemi di sovrapposizione tra la competenza statale e quella regionale, riducendo le occasioni di conflitto tra centro e periferia. Ma la questione è più complessa.

In primo luogo, pure dopo l’ipotizzata riforma costituzionale tra le materie di competenza esclusiva statale ve ne sarebbero alcune che – alla luce della giurisprudenza costituzionale – hanno una portata trasversale, idonea a consentire allo Stato di intervenire anche in materie di competenza regionale. Si pensi, ad esempio, alla tutela della concorrenza e al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (lett. e), oppure alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (lett. m).

In secondo luogo, la riforma intende attribuire allo Stato la competenza in merito alle disposizioni “generali e comuni” riguardo ad alcune materie, con la rimanente parte della disciplina rimessa alle Regioni, il che potrebbe continuare a porre il problema della definizione dei rispettivi ambiti di intervento di Stato e Regioni sulla medesima materia. È il caso, ad esempio, delle disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per la sicurezza alimentare e per la tutela e sicurezza del lavoro (lett. m), oppure su istruzione (lett. n), ambiente ed ecosistema (lett. s).

Potrebbero aiutare a ridimensionare la conflittualità tra Stato e Regioni, invece, la trasformazione del Senato in una Camera rappresentativa (prevalentemente) delle Regioni[7] e le modalità del suo coinvolgimento nel processo legislativo. Infatti, ai sensi dell’art. 70 Cost., nel testo ipotizzato dalla riforma, tale coinvolgimento dovrebbe essere particolarmente significativo nelle materie di maggiore interesse per le Regioni, perché nei casi indicati nel co. 1[8], la funzione legislativa dovrebbe essere esercitata collettivamente dalle due Camere, mentre, in quelli elencati nel co. 4[9], la Camera dei deputati potrebbe non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica ma solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Il coinvolgimento diretto del ramo del Parlamento che rappresenta le «istituzioni territoriali»[10] nell’iter di approvazione delle leggi statali di interesse regionale dovrebbe consentire di tenere in adeguata considerazione le esigenze delle Regioni sin dalla fase di elaborazione ed approvazione di tali leggi, diminuendo i motivi di contrasto tra Stato e Regioni dopo la loro entrata in vigore.

Per concludere in merito al riparto della potestà legislativa sono opportune almeno due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, occorre osservare che la riforma tende a correggere quelli che sono stati considerati dei veri e propri errori nell’elaborazione dell’art. 117 Cost. nel testo novellato nel 2001, ad esempio riportando nella competenza esclusiva statale le materie produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia (lett. v) e infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale (lett. z).

In secondo luogo, la riforma dell’art. 117 Cost. pare recepire la giurisprudenza costituzionale – piuttosto centralista – degli ultimi anni, rafforzando il ruolo dello Stato a scapito di quello regionale, ad esempio consentendo allo Stato – su proposta del Governo – di intervenire con legge «in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»[11]. Si introdurrebbe così in Costituzione una “clausola di supremazia”, idonea ad abilitare lo Stato ad intervenire in ambiti di competenza legislativa riservati alle Regioni nelle ipotesi – indeterminate – in cui occorra tutelare l’unità giuridica o economica oppure l’interesse nazionale. La riforma costituzionale sembrerebbe così recepire l’elaborazione giurisprudenziale della c.d. chiamata in sussidiarietà, che, almeno secondo parte della dottrina, avrebbe supplito all’assenza dell’interesse nazionale nel Titolo V riformato nel 2001.

4. Il progetto di riforma costituzionale di cui si discute interviene anche sugli artt. 118 e 119 Cost., che riguardano, rispettivamente, le funzioni amministrative e l’autonomia finanziaria. Le due disposizioni costituzionali hanno rappresentato il principale ostacolo all’attuazione della novella costituzionale del 2001, ma le modifiche ipotizzate non sembrano chiarire i dubbi da esse sollevati.

Quanto all’art. 118 Cost., la principale modifica è rappresentata dall’aggiunta di un comma[12] – inerente l’esercizio della funzione amministrativa e non la sua attribuzione –, che introdurrebbe in Costituzione i principî di semplificazione e trasparenza dell’azione amministrativa, nonché i criteri di efficienza e responsabilità degli amministratori. Con la riforma, tuttavia, non si tenta di fare chiarezza tra le diverse tipologie di funzioni amministrative alle quali la disposizione costituzionale fa riferimento.

Relativamente all’art. 119 Cost.[13] e con specifico riguardo all’autonomia finanziaria di entrata, la riforma intende introdurre il riferimento alla «legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», ovvero alla nuova competenza legislativa esclusiva prevista dall’art. 117, co. 2, lett. e, Cost. Inoltre, la disposizione costituzionale dovrebbe prevedere che le risorse derivanti dalle entrate degli enti territoriali, assicurino «il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni, sulla base di indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza». In questo modo, la riforma sembrerebbe introdurre in Costituzione un riferimento ai c.d. costi e fabbisogni standard di cui si è a lungo dibattuto al fine di attuare l’art. 119 Cost. dopo la riforma operata dalla l. cost. n. 3 del 2001[14].

Tra le ulteriori modificazioni ipotizzate per il Titolo V, due sembrano quelle maggiormente significative.

Innanzitutto, alla fine dell’art. 122 Cost. dovrebbe essere aggiunta la previsione secondo cui la legge dello Stato sarebbe competente a dettare i principî ai quali la legge regionale deve attenersi nel fissare gli emolumenti dei membri del Consiglio regionale, della Giunta e del suo Presidente «nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione». Questa novella, che – alla luce della crisi economica e dei recenti scandali che hanno riguardato molti Consigli regionali – può apparire giustificabile, si sostanzia in un ulteriore ridimensionamento dell’autonomia regionale, che sottintende l’incapacità di instaurare un corretto rapporto di rappresentanza-responsabilità tra le comunità regionali e gli organi di governo delle Regioni, alla quale deve supplire lo Stato.

In secondo luogo, sia in caso di intervento sostitutivo statale (art. 120, co. 2, Cost.) sia in caso di intervento sanzionatorio statale sugli organi di governo della Regione «che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge» (art. 126, co. 1, Cost.)[15] dovrebbe prevedersi il previo parere del nuovo Senato, in quanto Assemblea rappresentativa delle “istituzioni territoriali”.

5. Volendo formulare alcune considerazioni di sintesi sul progetto di riforma costituzionale, con specifico riferimento al Titolo V, si può osservare, innanzitutto, che l’ipotizzata riforma rischia di diventare un’occasione mancata.

Infatti, un intervento di revisione della Costituzione così ampio poteva rappresentare l’occasione per ripensare complessivamente l’attuale articolazione della Repubblica. In primo luogo, superando la distinzione tra Regioni ordinarie e Regioni speciali (salvo il caso peculiare del Trentino-Alto Adige) e sfruttando al meglio le possibilità offerte dal c.d. regionalismo differenziato di cui all’art. 116, co. 3, Cost., che il d.d.l. cost. conferma pur con talune modifiche[16]. Si sarebbe potuta superare, così, una distinzione che pare ormai anacronistica ed inefficiente, garantendo una differenziazione delle competenze regionali sulla scorta delle peculiarità e delle esigenze di ciascuna Regione.

In secondo luogo, si sarebbe potuto ipotizzare un accorpamento delle Regioni attualmente esistenti, prevedendo un numero contenuto di Regioni, con territorio e popolazione maggiori, con una adeguata autonomia e, al loro interno, con un numero circoscritto di Province, utili – queste ultime – all’interno di territori regionali sufficientemente ampi. Invece, il riformatore costituzionale ha scelto la via più semplice e – forse – maggiormente redditizia dal punto di vista elettorale: la radicale eliminazione delle Province dal novero degli enti territoriali previsti dalla Costituzione. Come si è già osservato, peraltro, non è detto che ciò implichi necessariamente la scomparsa di enti territoriali intermedi tra Regione e Comuni.

Considerando nel complesso la riforma costituzionale del Titolo V ora all’esame del Parlamento, si può peraltro affermare che essa sembri denotare una certa sfiducia nei confronti dell’autonomia regionale, limitandola in maniera significativa. Invero, nel progetto di riforma tale autonomia pare sostanziarsi maggiormente nel Senato della Repubblica rappresentativo delle “istituzioni territoriali”, anziché nelle Regioni, tanto più che tale Assemblea dovrebbe anche eleggere due giudici della Corte costituzionale[17]. Ma ciò significa riportare all’interno del circuito di decisione parlamentare il fulcro delle scelte inerenti alle autonomie territoriali, anziché favorire lo sviluppo di una vera e propria democrazia regionale, fondata sul rapporto tra le comunità regionali e i loro organi rappresentativi.


[1] Cfr. il d.l. n. 95 del 2012 e la l. n. 135 del 2012.

[2] Cfr. la l. n. 56 del 2014.

[3] Cfr. il d.d.l. cost. A.C. 1543, XVII Legislatura.

[4] Basti osservare, in proposito, che la l. n. 56 del 2014 è stata impugnata dinanzi alla Corte costituzionale da Campania, Lombardia, Puglia e Veneto.

[5] Ad opera della l. cost. n. 3 del 2001.

[6] Cfr. l’art. 1, rispettivamente co. 2 e 3.

[7] Non bisogna dimenticare, infatti, che il Senato ipotizzato dal progetto di riforma costituzionale dovrebbe essere costituito anche da Sindaci e da cinque senatori eletti dal Presidente della Repubblica: cfr. gli artt. 57 e 59 Cost.

[8] Per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare, per le leggi che danno attuazione all’art. 117, co. 2, lett. p, Cost., per la legge di cui all’art. 122, co. 1, Cost. e negli altri casi previsti dalla Costituzione.

[9] Per i disegni di legge che dispongono nelle materie di cui agli artt. 114, co. 3, 117, co. 2, lett. u, 4, 5 e 9, 118, co. 4, 119, 120, co. 2, e 132, co. 2, Cost.

[10] Così il “nuovo” art. 57 Cost.

[11] Sarebbe il nuovo art. 117, co. 4, Cost. Il principio dell’interesse nazionale era già previsto dagli art. 117 e 127 Cost. nel testo anteriore alla riforma del 2001 ed era stato soppresso dalla l. cost. n. 3 del 2001.

[12] Sarebbe il nuovo co. 2 dell’art. 118 Cost.

[13] Parzialmente modificato già dalla l. cost. n. 1 del 2012.

[14] Si pensi, in particolare, alla l. n. 42 del 2009.

[15] ...e al quale non si è mai fatto ricorso.

[16] ...mentre il progetto del Governo intendeva abrogare tale comma.

[17] Cfr. art. 135, co. 1, Cost., nel testo ipotizzato dal d.d.l. cost. A.S. 1429-A.

Ultima modifica il 02 Agosto 2014