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Pubblicato in Altri diritti

IL DILEMMA DELLA CONTINUAZIONE MORTIS CAUSA NELLE SOCIETA’ DI PERSONE TRA ESIGENZE SOCIALI E LIMITI LEGALI

by Dott. Gaetanino Rajani on13 Agosto 2014

Corte di Cassazione, Sezione I, 19 giugno 2013 n. 15395

A distanza di quasi un decennio dall’ultimo pronunciamento sul punto la Suprema Corte ribadisce la ammissibilità della cd. clausola di continuazione obbligatoria in materia di Società in accomandita semplice.

L’intera disciplina delle società lucrative personali (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) si caratterizza, come noto, per il cd. intuitus personae, ovverosia il basilare rapporto di fiducia e conoscenza reciproca tra i soci che funge da collante per mantenere unita la compagine sociale.

D’altro canto, secondo l’interpretazione prevalente in dottrina, la quota di partecipazione ad una società di persone è qualificabile in termini di posizione contrattuale, a cui sono connessi diritti (patrimoniali ed amministrativi) ed obblighi specifici per i contraenti – soci.

In particolare, il contratto di società (cfr. art. 2247 c.c.) si connota per la comunione di scopo e d’intenti che muove i singoli aderenti a conferire beni o servizi per l’esercizio comune ed organizzato dell’attività imprenditoriale.

Trattasi, in altri termini, di un fenomeno di “affievolimento” dell’interesse individualistico, che viene incanalato attraverso il regolamento contrattuale, per costituire, infine, una base di interesse comune a tutti i consociati.

L’intuitus personae se, per un verso, caratterizza il genus delle società di persone e ne permea i legami tra soci, per altro verso ne costituisce – al pari del diverso regime di responsabilità - un importante elemento discretivo rispetto alle società di capitali. Queste ultime, invero, poggiando sulla (naturale) assenza di rapporti personali tra gli aderenti al contratto sociale, che di regola restano nel reciproco anonimato, si connotano per la preponderanza del conferimento rispetto alle qualità soggettive dei soci.

Ne consegue, del resto, una diversa natura giuridica in ordine alla quota di partecipazione, che si suole qualificare come bene mobile registrato presso il Registro delle Imprese.

Il requisito personalistico in oggetto emerge in tutta la sua portata applicativa nella disciplina dello scioglimento del singolo rapporto sociale per morte del socio.

L’art. 2284 c.c., infatti, stabilisce che, salvo diversa previsione dell’atto costitutivo, i soci superstiti devono liquidare agli eredi del socio defunto il controvalore in danaro della partecipazione, calcolato secondo criteri di natura patrimoniale.

È di tutta evidenza come il principio citato (liquidazione della quota) altro non sia che la diretta applicazione dell’intuitus personae: esso impedisce, di norma, la sostituzione di soggetti terzi alla persona del de cuius.

A sostegno di tale interpretazione può invocarsi il capitale principio di unanimità per le modifiche dell’atto costitutivo, consacrato nell’art. 2252 c.c., che conferma la natura palesemente contrattuale del rapporto sociale sulla scia dell’assunto per cui il contratto non può essere modificato se non col consenso di tutti i contraenti (cfr. art. 1372 c.c.).

Pertanto, alla luce di quanto affermato, è possibile condividere l’opinione dottrinale prevalente secondo cui, all’apertura della successione, gli eredi del socio defunto sono titolari di un diritto di credito pari al valore (patrimoniale) della partecipazione, essendo loro interdetto l’ingresso in società.

A diverse conclusioni conduce, tuttavia, l’analisi dell’art. 2322 c.c. dettato in materia di società in accomandita semplice.

Questa tipologia sociale, contraddistinta dal dualismo tra soci accomandanti e soci accomandatari, si arricchisce del fattore limitativo della responsabilità, con ciò anestetizzando l’effetto dirompente dell’intuitus personae sui legami sociali.

Ne deriva – quale somma eccezione normativa, almeno nell’ambito delle società personali – la libera disponibilità mortis causa della quota di partecipazione del socio accomandante (e limitatamente responsabile).

Fin qui la disciplina “ordinaria” di applicazione piuttosto frequente nella prassi commerciale.

Come superiormente accennato, il Legislatore ha predisposto una clausola di salvezza, a carattere derogatorio, che lascia ampio margine di manovra alla volontà sociale (cfr. art. 2284, primo comma, seconda parte c.c.).

Essa può agire in modo preventivo o successivo al verificarsi dell’evento inerente alla persona del socio.

Successiva è la decisione dei consociati – assunta naturalmente all’unanimità – di provocare lo scioglimento della società; si tratta, con tutta evidenza, di una extrema ratio, espressione di un’accentuata esaltazione delle qualità personali (ed insostituibili) del de cuius, la cui venuta meno impedisce la prosecuzione delle attività sociali.

Carattere normalmente preventivo assume, invece, la clausola pattizia che prevede la continuazione della società con gli eredi, in qualità di successori a titolo universale del socio defunto. Non si può, tuttavia, escludere a priori una modifica dei patti sociali in tal senso, sempreché anteriore alla morte del socio.

A dispetto della scarna formulazione dell’art. 2284 c.c., che sembra restringere lo spazio concesso all’autonomia privata, la dottrina specialistica ha elaborato tre diverse clausole continuative, ciascuna delle quali risponde ad esigenze parzialmente differenti.

Preliminarmente, appare opportuna una precisazione terminologica: le clausole de qua, a prescindere dalle diverse qualificazioni, sono sempre obbligatorie per la società (e, quindi, per i soci superstiti), stante la portata imperativa e vincolante del contratto sociale.

Pertanto, ogni attributo definitorio si riferisce esclusivamente al lato “passivo” del rapporto cui accede.

Con la clausola di continuazione cd. facoltativa – cui allude con chiarezza il dettato normativo – gli aventi causa del socio defunto sono titolari di una mera facoltà di subingresso nella posizione sociale vacante.

Non sussiste, in altri termini, alcun obbligo e/o soggezione di continuazione, ma si offre una valida alternativa, economicamente apprezzabile, alla liquidazione della quota.

L’erede, infatti, potrebbe valutare con favore l’opportunità di entrare nella compagine sociale - ad esempio, per motivi affettivi e/o di gratitudine verso il de cuius, ovvero semplicemente per utilità personale - anche a fronte della (normale) assunzione della responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali (cfr. art. 2269 c.c.).

Quanto alla natura giuridica, trattasi di un fenomeno contrattuale inquadrabile nell’ambito dell’art. 1411 c.c. (contratto a favore del terzo), fattispecie bilaterale con deviazione degli effetti nella sfera giuridica del terzo - estraneo alla stipulazione - il quale ha facoltà o meno di aderirvi.

Sul punto, invero, sono ravvisabili i due fondamentali requisiti della conventio conclusa tra i soci e la società – avente ad oggetto l’introduzione della clausola in commento – nonché del beneficio concesso al terzo (erede). Quest’ultimo possiede di certo un deciso interesse alla stipulazione poiché riceve la citata facoltà di scelta (continuazione o liquidazione), senza alcun sacrificio patrimoniale a suo carico; per tale via, non può assumersi violato il principio di relatività degli effetti negoziali sancito dall’art. 1372, comma I, primo periodo c.c.

Conseguentemente, e con riferimento alla sua ammissibilità, la dottrina e giurisprudenza prevalenti convergono per la soluzione positiva partendo dal presupposto che tale patto sociale non pregiudica la posizione del successibile, ma, al contrario, ne arricchisce lechances patrimoniali, nei termini sopra indicati.

La seconda tipologia di clausola, definita “di continuazione obbligatoria”, costituisce una pregnante deroga al disposto di cui all’art. 2284 c.c. ed il motivo è facilmente intuibile, avendo riguardo per il tenore della definizione stessa.

Ferma la volontà, per così dire statica, dei soci superstiti, consacrata nei patti sociali, i successori del socio defunto sono tenuti, infatti, al subingresso obbligatorio nello status del loro dante causa, con effetto dall’apertura della successione.

La ratio alla base di una simile disposizione sembra riposare – secondo la visione comune in dottrina - nell’intenzione dei soci di attenuare gli effetti dell’intuitus personae, consentendo l’allargamento della compagine sociale anche a soggetti terzi, connotati di norma dal requisito di parentela e/o familiarità col socio dipartito ovvero da qualità personali compatibili con la prosecuzione della società.

Sotto il profilo degli interessi sociali è ravvisabile l’esigenza di garantire stabilità patrimoniale, oltre che numerica, all’impresa collettiva, sul presupposto che la liquidazione della quota comporterebbe una deminutio per le casse sociali, con particolare riguardo per il valore “reale” (e non puramente nominale) della partecipazione.

Nell’ottica interpretativa che appare preferibile e prevalente, la clausola di continuazione obbligatoria rientra nel genus della promessa dell’obbligazione del terzo (cfr. art. 1381 c.c.), quale sorta di assicurazione che i soci vicendevolmente si scambiano circa il puntuale ingresso in società da parte del rispettivo e futuro successore mortis causa.

Sorgendo, come detto, un’obbligazione in senso tecnico concernente l’assunzione della partecipazione sociale - con tutti gli oneri e pesi che ne conseguono (in primis, la responsabilità illimitata) - in caso d’inadempimento da parte dell’erede (o degli eredi), la società avrà accesso alla tutela obbligatoria per risarcimento del danno.

Sotto il profilo della liceità di tale clausola si ravvisano due orientamenti contrapposti.

Una prima (e tradizionale) interpretazione propende per la soluzione negativa, sul presupposto che verrebbe in sostanza violato il diritto alla liquidazione della quota. L’erede, invero, risulterebbe “prigioniero” della compagine sociale, fatto salvo il caso dell’inadempimento, peraltro gravido di conseguenze sul piano risarcitorio.

La tesi che appare a tutt’oggi preferibile e prevalente – corroborata dal dictum giurisprudenziale in commento – poggia sulla piena conformità della clausola esaminata al principio di autonomia privata, cui l’art. 2284 c.c. implicitamente rinvia al suo inciso iniziale: “Salva contraria disposizione del contratto sociale…”.

Nel silenzio normativo – alla supplenza del quale è impedito il ricorso ad analogia restrittiva – e secondo un bilanciamento di interessi contrapposti, si ritiene prevalente l’interesse della società alla continuazione delle attività rispetto all’interesse del successore alla monetizzazione della quota.

A sostegno della tesi in esame è possibile, inoltre, richiamare la volontà del socio dante causa, estrinsecata nel suo (necessario) consenso alla deroga al regime “ordinario” della liquidazione della partecipazione, secondo la lettura combinata degli artt. 2252 e 2284 c.c.

Efficacia ancor più stringente assume la clausola cd. di continuazione automatica (o clausola di successione), che comporta il subentro necessario e ope successionis dell’erede in luogo del suo dante causa nella partecipazione al contratto sociale.

In altri termini, l’erede, per il sol fatto di aver accettato l’eredità, è da ritenersi socio senza soluzione di continuità rispetto alla posizione occupata in precedenza dal de cuius.

Il principale movente di una previsione di tal genere è rinvenibile nell’esigenza, avvertita dalla compagine sociale, di impedire tout court la riduzione del numero dei soci nonché di “consumare” il potere di addivenire allo scioglimento (anticipato) dell’ente.

Non può tacersi riguardo alla contestata ammissibilità di tale disposizione anche alla luce delle pesanti ripercussioni che essa comporta in materia sia patrimoniale che successoria.

Una parte minoritaria della dottrina ne sancisce la validità alla luce del principio di autonomia statutaria – in assenza di norme contrarie sul punto – facendo leva sulla distinzione tra il piano successorio (delazione ereditaria) ed il piano squisitamente patrimoniale, quest’ultimo ancorato alla partecipazione sociale.

Allo stato attuale, tuttavia, l’interpretazione seguita dalla dottrina più moderna e avallata dalla giurisprudenza di legittimità, si pronuncia in senso sfavorevole in base ad una serie di condivisibili motivazioni.

In primo luogo, si rileva una grave limitazione alla libertà personale del chiamato: costui, infatti, pur nutrendo interesse ad accettare l’eredità, sarebbe indotto persino a rinunciarvi pur di evitare l’assunzione della responsabilità illimitata. Il che contrasta col carattere libero e spontaneo della delazione ereditaria.

In secondo luogo, l’art. 2284 c.c. con l’inciso “e questi vi acconsentano” (riferito agli eredi del socio defunto) sembra richiamare un consenso esplicito e manifesto alla continuazione, pertanto non desumibile per facta concludentia dalla semplice accettazione (espressa o tacita) dell’eredità.

In ultima analisi, si evidenzia una palese incompatibilità strutturale tra la clausola di successione e l’istituto dell’accettazione con beneficio d’inventario (artt. 484 e ss. c.c.).

Quest’ultima forma di accettazione – peraltro insopprimibile secondo il dettato dell’art. 470, comma 2, c.c. – produce l’effetto segregativo tra patrimoni (di dante ed avente causa), impedendo il dispiegarsi della (normale) responsabilità ultra vires hereditatis connessa al fenomeno successorio a titolo universale.

Ne discende che il delato, pur optando per l’accettazione beneficiata, qualora fosse vigente la clausola in esame, finirebbe per rispondere personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni sociali preesistenti, generando un’antinomia legislativa di difficile soluzione.

Analizzando brevemente il pronunciamento giurisprudenziale in oggetto, la fattispecie si incentra sulla ammissibilità (o meno) di una clausola di continuazione obbligatoria in s.a.s., riguardante la posizione di socio accomandatario.

Come detto, nulla quaestio nel caso di subentro obbligatorio nella posizione di socio accomandante, stante il chiaro tenore letterale dell’art. 2322, comma 1 c.c.

A contrastanti letture conduce, invece, la clausola inerente alla qualità di socio accomandatario.

La Suprema Corte – richiamandosi ad un precedente orientamento (cfr. Cass. n. 2632/1993) – stabilisce che tale clausola non sia priva di validità, al contrario “integrando quella legittima facoltà dispositiva in deroga alla regola generale (la liquidazione della quota) prevista dall'art. 2284 c.c., che la stessa norma (applicabile alla s.a.s. in base al doppio rinvio previsto dagli artt. 2315 e 2293 c.c.) riconosce ai soci in sede di conclusione del contratto sociale”.

A beneficio dell’interprete, e ancor di più dell’operatore giuridico, ne discende una ritrovata dose di “serenità professionale” nel ricevimento di un atto costitutivo ovvero nell’interpretazione di un accordo sociale contenente una disposizione derogatoria al principio di cui all’art. 2284 c.c.

Ma vi è di più.

Nella sentenza de qua si traccia uno sdoppiamento di binario tra la qualità di socio accomandatario e quella di amministratore.

Se la prima, infatti, compete all’erede (o al rappresentante comune, in caso di pluralità di eredi), lo stesso non può dirsi con riferimento alla carica di amministratore della società.

La lettura combinata degli artt. 2318 e 2319 c.c. dimostra che l’amministrazione può essere conferita al solo socio accomandatario purché consti il consenso qualificato dei soci superstiti, in palese deroga ai principi in materia di s.n.c.

Logico corollario, secondo la Suprema Corte, è l’impossibilità di un subentro automatico nella carica esercitata del socio defunto.

Ultima modifica il 24 Agosto 2014