Pubblicato in Altri diritti

Le Sezioni unite nel caso TKAST: una “stretta” sul dolo eventuale?

by Prof. Massimiliano Masucci on23 Gennaio 2015

Con un’ampia motivazione, le Sezioni unite della Cassazione hanno respinto il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino, inteso a censurare la qualifica di colpa impressa nel secondo grado di giudizio agli omicidi contestati all’amministratore delegato della TKAST (Thyssenkrupp acciai speciali Terni) s.p.a., che la prima assise torinese aveva invece reputato commessi con dolo eventuale.

Errato, secondo l’accusa, doveva considerarsi il riferimento all’accettazione dell’evento, valorizzata dai giudici d’appello come requisito della predetta forma di dolo: necessaria e sufficiente sarebbe stata la sola accettazione del rischio, senz’altro riscontrabile nelle scelte operative dell’amministratore[1].

La tesi non è stata tuttavia condivisa dalla Suprema Corte, incline a seguire – è stato detto[2] – una linea di prudenza. Esclusa un’interpretazione che identifichi l’oggetto del dolo nel “rischio”, anziché nell’evento offensivo che ne costituisca l’epilogo, le sezioni unite hanno ribadito la correttezza della decisione maturata dalla Corte di assise di appello: perché sussista il dolo eventuale – questo, in breve, il succo della sentenza – occorre un’opzione favorevole alla potenziale lesione del bene giuridico protetto dalla legge penale, che il soggetto ratifichi preventivamente come un «prezzo»da mettere in conto pur di perseguire una propria finalità. Nella vicenda esaminata, simile opzione non è stata tuttavia accertata: ai giudici della Cassazione essa è parsa anzi smentita dalla circostanza che le tragiche morti intervenute rappresentassero il fallimento della missione professionale affidata all’amministratore delegato, consistente nella lotta “senza tregua” agli incendi nello stabilimento torinese.

2. La sentenza delle Sezioni unite professa riserbo: rifiutando un approccio astratto o puramente teorico, non si incaponisce nella ricerca di una “formula” con la quale definire il dolo eventuale. Si guarda quindi  attentamente dal promuovere «una nuova opinabile, verbosa teoria», dichiarando di preferire un’impostazione realistica, sensibile ai problemi dell’accertamento giudiziale.

La scelta di campo chiarisce lo sviluppo degli argomenti. Pur non rinunciando a puntualizzare, in sintonia con un dibattito risalente, le lacune che ritiene annidarsi in questo o quel criterio discretivo – nella previsione negativa dell’evento, bollata come «sistematicamente inaccettabile»e in urto con l’art. 61, n. 3 c.p., se elevata a contrassegno della colpa con previsione; o nella cosiddetta prima “formula di Frank”, esposta a scadimenti introspettivi nella personalità dell’autore e fatalmente inconcludente, quando non sia possibile appurare ciò che l’agente avrebbe deciso, una volta acquisita certezza dell’evento – la decisione riassume le difficoltà applicative testimoniate da consolidate tipologie casistiche. Vi spiccano le vicende del rifiuto di trasfusioni “salvavita”; della trasmissione del virus HIV; degli omicidi stradali; raccolte in una disamina che vuol esprimere, detto senza enfasi, una fenomenologia del giudicare, sulla quale puntellare – e contro la quale saggiare – i paradigmi dell’esperienza processuale.

Proprio lo spirito di una ricerca libera da pregiudiziali, dominata da quel “talento analitico” del giudice che la Cassazione a più riprese reclama, anima la conclusiva rassegna degli indici probatori, esemplificati senza pretesa di completezza – ma con notevole estensione – a beneficio dell’interprete pratico: che, dice la Corte, pur conservando indiscussa libertà di apprezzamento, deve compiere una serie di verifiche, nelle quali soltanto può maturare la prova del dolo (eventuale). Divengono così oggetto necessario dell’analisi, oltre alla condotta, alle sue modalità esecutive e agli effetti prodotti: la divaricazione tra il comportamento concreto e quello prescritto; la personalità, la maturità, la cultura e l’esperienza dell’imputato; la durata o la reiterazione della condotta; la reazione dell’autore al fatto commesso e il comportamento successivamente serbato; il rapporto di congruenza o di contraddizione tra la finalità perseguìta e l’evento lesivo; il tasso di probabilità di tale evento; la scelta dell’agente di esporre a rischio se stesso, oltre alla vittima; il contesto lecito o illecito dell’azione; la constatazione di ciò che il soggetto avrebbe fatto se avesse previsto l’evento come certo, in conformità alla ricordata formula di Frank.

Ne emerge un insieme di criteri offerti all’investigazione operativa del giudice di merito: nel segno dell’aderenza al caso singolo e, ad un tempo, del laico rifiuto di far dipendere il dolo da pur circospette analisi della «sfera emotiva dell’agente, della sua maggiore o minore sensibilità, dal livello del senso della realtà». Percorso invero ineccepibile, quanto al metodo; benché refrattario ad esiti generalizzanti. E’ bene infatti esser consapevoli che nessuno degli “indici” inventariati dalla Corte di legittimità depone univocamente in un senso soltanto. Tutti sono, per così dire, ambivalenti: possono indiziare o negare quell’opzione preventiva nella quale la stessa Corte ha ritenuto di identificare la nota irrinunciabile del dolo eventuale. La “direzione valutativa” che ciascuno assuma va scoperta nel vivo del singolo avvenimento.

3. Il vero, a me sembra, è che la portata dei criteri euristici richiamati dalla sentenza sarebbe risaltata più nitida in un quadro concettuale ove si fosse preliminarmente approfondito il dato strutturale di fondo: quel “bilanciamento” tra i beni, vale a dire, nel quale risulti perdente – perché accettato come costo – il valore penalmente protetto, subordinato ad un fine prevalente.

Un punto sembra indiscutibile: premesso che l’agente non preveda la lesione con certezza, anche nel modello di dolo eventuale valorizzato dalla Suprema Corte quel che il soggetto preventivamente accetta, mettendolo in conto, non è l’evento, ma la sola possibilità che esso si verifichi.

E’ un dato non secondario: subordinata al perseguimento di una certa finalità è, propriamente, un’offesa potenziale, non un’offesa certa. Con ogni conseguenza: non è affatto scontato che l’agente, pur determinato ad accettare la possibilità dell’evento, al contempo lo approvi o vi consenta. E’ invece senz’altro concepibile che egli speri o confidi di evitarlo: e magari si decida a intraprendere una qualche condotta nella ferma convinzione che non vi saranno effetti collaterali.

In sintesi: l’opzione a favore dell’evento offensivo non corrisponde alla decisione di agire “a costo” del rischio. La formula del bilanciamento tra bene protetto e interesse all’azione, che pure ha recentemente incontrato séguito nella giurisprudenza e che anche le Sezioni unite mostrano di accreditare, non consente di superare tale constatazione. Una vera e propria accettazione della lesione, con sacrificio del bene protetto, si riscontra esclusivamente nel dolo diretto, allorché il soggetto consideri l’evento ineluttabile. Nel dolo eventuale la prognosi è per definizione incerta: sì che, nella prospettiva del diritto penale, il vero problema risiede nella valutazione giuridica delle ragioni che muovano ad assumere il rischio: quesito rispetto al quale lo schema del “bilanciamento” assume un valore puramente descrittivo, non certo risolutivo.

E’ un nodo logico del quale la sentenza in esame, in punti nevralgici, rivela consapevolezza: tanto da sottolineare che il dolo eventuale debba concepirsi come un costrutto governato da fattori che consentano, nell’ottica del diritto penale, un’assimilazione delle rispettive componenti psicologiche alla volontà dell’evento, strettamente intesa. A tali fattori occorre dunque volgere l’attenzione.

4. Nel dolo intenzionale l’evento è voluto: in altre parole, l’agente segue una regola d’azione finalizzata all’evento medesimo. Nel dolo diretto la regola d’azione non è finalizzata all’evento, ma è incompatibile con qualsiasi sviluppo causale che non implichi l’evento. Nel dolo eventuale, per contro, la regola che l’agente dà a se stesso è compatibile con uno sviluppo causale innocuo: occorre perciò comprendere il rapporto che si stabilisca tra la regola d’azione concretamente seguìta e il rimprovero penale.

In quest’ottica, il distinguo di fondo va tracciato fra i casi in cui il soggetto si affidi a fattori, benché rivelatisi infruttuosi, che nella propria visione preventiva indirizzino il processo causale verso il “non evento”; e i casi in cui ciò non avvenga.

Proprio seguendo tale linea argomentativa le sezioni unite hanno escluso il dolo nella vicenda di specie, quando hanno sottolineato che l’amministratore delegato della TKAST, nonché i dirigenti incaricati a vario titolo delle mansioni in materia di sicurezza dell’impianto, abbiano fatto affidamento su una pregressa e ripetuta esperienza consistita nel soffocamento senza rischio di iniziali focolai d’incendio da parte degli operai addetti alle linee; suffragata, per di più, almeno agli occhi dell’amministratore dall’apparente buono stato di efficienza degli impianti, «tirati a lucido»in occasione di periodiche visite.

Non va dimenticata l’impostazione data al tema nella sentenza di primo grado: il dolo eventuale era stato ascritto dalla Corte di assise all’amministratore delegato a causa della non ragionevolezza dell’affidamento da lui riposto nella capacità dei suoi collaboratori e prima ancora degli operai di sedare le potenziali fonti d’incendio; ad essa contrapponendo la ragionevolezza della fiducia nutrita dai membri del consiglio di amministrazione e dai supervisori della sicurezza nel corretto comportamento preventivo del medesimo amministratore delegato. Nel cassare la conclusione, già rovesciata dalla sentenza di appello, la decisione in esame sembra voler negare il sindacato del giudice penale sulla maggior o minore “ragionevolezza” dell’affidamento: il che appare corretto, in quanto il dolo eventuale potrebbe residuare esclusivamente nell’ipotesi di un affidamento del tutto irrazionale, non sorretto da alcuna realistica circostanza che giustifichi una prognosi ottimistica sull’innocuità della condotta.


[1]E’ una posizione ribadita da rappresentativi magistrati della procura torinese nel dibattito successivo alla sentenza: cfr. l’articolo Sul caso Thyssen la Cassazione si è contraddetta, ne La repubblica del 5 ottobre 2014, nel quale sono riportate le valutazioni del Consigliere Guariniello, riprese poi nel Colloquio con l’intervistatrice Ottavia Giustetti edito sul medesimo quotidiano il 21 novembre 2014, all’indomani del verdetto della Cassazione nella vicenda “Ethernit”: le critiche traggono origine dalla contraddizione con altre pronunce, interpretate come favorevoli a riconoscere il dolo eventuale nella pura accettazione del rischio. 

[2]Cfr. Grosso, Una sentenza che salvaguarda diritto e giustizia, ne La Stampa del 26.4.2014. 

Ultima modifica il 23 Gennaio 2015