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LA LIBERTÀ SINDACALE NELLE FORZE ARMATE: L’INTERVENTO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

by Avv. Gianluca Di Stefano on28 Febbraio 2015

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con le pronunce del 2 ottobre 2014, "Matelly vs Francia" (ricorso n. 10609/10) e "ADEFDROMIL vs Francia" (ricorso n. 32191/09), ha avuto modo di pronunciarsi in tema di libertà sindacali e delle relative rappresentanze all’interno delle Forze Armate.

Ci si soffermerà, dunque, sulla libertà di associazione del personale militare, nel cui novero rientra il diritto di formare sindacati e di aderirvi, analizzando in maniera concisa la normativa di riferimento ed i principi di matrice giurisprudenziale che afferiscono alla tematica in esame.

Nel principiare occorre trattenersi, seppur brevemente, sulle libertà individuali ad esercizio collettivo, cui la libertà sindacale si atteggia quale logico corollario.

Ebbene, il gradino più elementare delle predette libertà va individuato nella libertà di riunione.

Come precisato dalla dottrina più avveduta per essa deve intendersi il confluire intenzionale e concordato di più persone nello stesso luogo.

Direttamente collegata ad essa è poi la libertà sindacale, garantita dall’art. 39, co. 1, della Costituzione, secondo cui l’organizzazione è libera.

Dunque, la facoltà o diritto di costituire associazioni sindacali, con la possibilità per il cittadino di potervi aderire oppure di uscirne senza alcuna limitazione, si configura quale diritto fondamentale e costituzionalmente tutelato.

Corre l’obbligo di rammentare come nel nostro Paese l’affermazione di tale libertà rappresenti il reciso abbandono del tentativo, operato dal fascismo, di dominare i conflitti attraverso i meccanismi del sistema corporativo.

Pur tuttavia, per gli appartenenti alle Forze Armate, una norma si frappone quale ostacolo all’esercizio pieno delle libertà sindacali.

Invero, secondo quanto stabilito dall’art. 8 della Legge n. 382/1978, “I militari  non possono esercitare il diritto di  sciopero, costituire  associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali”.

Di medesimo tenore anche l’art. 31 del Regolamento di disciplina militare.

Ad ogni modo, lungi dal voler tediare con asserzioni relative alla portata dei principi e delle libertà in parola, in tale sede si ritiene opportuno ripercorrere l’iter giurisprudenziale, di matrice non solo nazionale, che involge la tematica in disamina.

Occorre, prima di soffermarsi sulle pronunce di matrice sovranazionale, prender le mosse dalla sentenza n. 449/99, con cui la Corte Costituzionale, aveva avuto modo di pronunciarsi sul tema che qui ci interessa, e ciò nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare), promosso con ordinanza emessa il 2 giugno 1998 dal Consiglio di Stato.

Si ritiene di notevole utilità riportare alcuni passi della citata sentenza, i quali hanno il pregio di ricostruire in maniera analitica e sistematica il quadro normativo e dei principi che attengono alla delicata materia in esame.

In essa si legge: “la legge n. 382 del 1978, pur negando ai militari la libertà sindacale, riconosce loro facoltà tipiche di essa, devolvendole a specifici organi che si pongono in “posizione collaborativa”, e non antagonista, rispetto all’autorità militare. Tuttavia gli organi di rappresentanza non coprono l’arco delle possibili istanze collettive, come accade ad esempio in materia di contenzioso; e soprattutto gli strumenti predisposti sacrificano i principi della libertà di organizzazione e del pluralismo sindacale, ammettendo la mera partecipazione dei rappresentanti alla concertazione interministeriale, volta a determinare il contenuto del rapporto di impiego, mentre per le forze di polizia a ordinamento civile vale il più incisivo strumento dell’accordo sindacale (a questo proposito l’ordinanza pone a confronto le lettere A) e B) dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 195). Né potrebbe fondarsi l’esclusione della libertà sindacale sull’esigenza di non indebolire la disciplina militare, le cui norme regolatrici non subirebbero alcuna modifica; per cui si richiama la sentenza n. 126 del 1985 al fine di sottolineare come non vadano certo obliterate le esigenze di coesione dei corpi militari che si esprimono nei valori della disciplina e della gerarchia, senza per questo giustificare un eccesso di tutela a danno delle libertà fondamentali e del carattere democratico dell’ordinamento militare.”

Prosegue la Consulta:

“L’ordinanza di rimessione fa leva sull’art. 39, letto in sistema con l’art. 52, terzo comma, della Costituzione. E qui va innanzitutto rilevato che manca nella prospettazione del Consiglio di Stato una considerazione - pur limitata - delle esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività che distinguono le Forze armate dalle altre strutture statali. Significativamente l’art. 52, terzo comma, della Costituzione parla di “ordinamento delle Forze armate”, non per indicare una sua (inammissibile) estraneità all’ordinamento generale dello Stato, ma per riassumere in tale formula l’assoluta specialità della funzione. Coerentemente, questa Corte ha messo in luce le esigenze funzionali e la peculiarità dell’ordinamento militare (sentenze nn. 113 del 1997197 del 199417 del 1991ordinanza n. 396 del 1996), pur ribadendo più volte che la normativa non è avulsa dal sistema generale delle garanzie costituzionali: nella sentenza n. 278 del 1987, in cui vi è l’eco dei risultati cui è pervenuta la dottrina, la Corte ha infatti osservato che la Costituzione repubblicana supera radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare, giacché quest’ultimo deve essere ricondotto nell’ambito del generale ordinamento statale “rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini” (in senso analogo, v. altresì la successiva sentenza n. 78 del 1989).”

Di seguito il passaggio più rilevante:“Il rilievo che la struttura militare non è un ordinamento estraneo, ma costituisce un’articolazione dello Stato che in esso vive, e ai cui valori costituzionali si informa attraverso gli strumenti e le norme sopra menzionati, non consente tuttavia di ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore per la costituzione delle forme associative di tipo sindacale in ambito militare. Se è fuori discussione, infatti, il riconoscimento ai singoli militari dei diritti fondamentali, che loro competono al pari degli altri cittadini della Repubblica, è pur vero che in questa materia non si deve considerare soltanto il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione e, quindi, l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle garanzie (anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento. Qui rileva nel suo carattere assorbente il servizio, reso in un ambito speciale come quello militare (art. 52, primo e secondo comma, della Costituzione). Orbene, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 8, nella parte denunciata, aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”.

Come si evince dal testo sopra riportato, dopo le prime promettentipremesse, la Corte fece un deciso“dietrofront” e dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge 382/78,di guisa da ritenerelegittimo il divieto imposto ai militari di costituire associazioni professionali.

La questione potrebbe quindi ritenersi astrattamente chiusa.

Senonché, i principi sanciti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomocon le pronunce del 2 ottobre 2014, "Matelly vs Francia" (ricorso n. 10609/10) e "ADEFDROMIL vs Francia" (ricorso n. 32191/09), impongono una rivisitazione della normativa dettata in subiecta materia.

Con tali pronunce la Corte ha avuto modo di vagliare la conformità del divieto assoluto di costituire sindacati all’interno delle forze armate francesi con i principi rinvenibili nell’art. 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Orbene, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR), pur dando atto che lo Stato francese avesse messo in atto organismi e procedure per tener conto delle preoccupazioni del personale militare, ha, tuttavia, ritenuto che tali istituzioni non sostituiscano la libertà di associazione del personale militare, una libertà che comprende il diritto di formare sindacati e di aderirvi.

La Corte riferisce di essere ben consapevole del fatto che la particolare natura della missione delle forze armate necessiti che l'attività sindacale - che, nell'adempiere il suo scopo, potrebbe portare alla luce l'esistenza di opinioni critiche riguardanti alcune decisioni che hanno interessato la situazione morale e pecuniaria del personale militare - debba essere adattata a queste particolari circostanze.

Ha, pertanto, evidenziato che, a norma dell'articolo 11 della Convenzione, le restrizioni, anche quelli importanti, potrebbero essere imposte sulle forme di azione ed espressione di una associazione professionale a condizione che tali restrizioni non privino il personale militare del diritto generale di associazione in difesa dei loro interessi professionali e non pecuniari.

In buona sostanza, la Corte ha ritenuto che i motivi invocati dalle autorità per giustificare l'interferenza nei diritti del ricorrente, sig. Matelly, non siano stati né pertinenti né sufficienti, visto che la decisione dell’autorità francese si appalesava come un divieto assoluto rivolto al personale militare di unirsi in un sindacato di categoria costituito per difendere gli interessi professionali e non pecuniari.

Questo divieto generale di formare o aderire a un sindacato, a parere della Corte, usurpa l'essenza stessa della libertà di associazione, non può, dunque, essere considerato proporzionato e non è quindi necessario in una società democratica.

Logica conseguenza dell’assunto è la sussistenza di una profonda violazione dell'articolo 11 della Convenzione.

Ulteriore spunto: non può dimenticarsi come l’abolizione del servizio di leva e la nascita di un esercito di professionisti abbiano apportato radicali cambiamenti nella struttura e nell’organizzazione delle Forze Armate.

Tale cambiamento, successivo alla pronuncia della Corte Costituzionale, visto in combinato ai principi della Corte europea, rende necessaria una riscrittura della normativa riguardante le rappresentanze sindacali per le Forze Armate, eliminando del tutto le ritrosie mostrate dalla Corte Costituzionale laddove affermava che un’apertura in tal senso “aprirebbe inevitabilmente la via a organizzazioni la cui attività potrebbe risultare non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità dell’ordinamento militare”.

In conclusione, superiori principi rinvenibili negli artt. 39 e 52, co. 3 Cost., oltre che nell’art. 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, evidenziano la necessità di eliminare il divieto normativo oggetto della censura dei giudici di Strasburgo, espungendo quelle restrizioni che privino del tutto il personale militare del diritto generale di associazione in difesa dei loro interessi professionali e non pecuniari.

Si evidenzia, in punta di penna, come una apposita commissione parlamentare, presieduta dall’On. Elio Vito, sia già all’opera per dare concretezza ai principi sanciti dalla Corte europea e dunque per addivenire, in merito a tale tematica, alla formulazione di un nuovo impianto normativo. 

Ultima modifica il 28 Febbraio 2015