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Pubblicato in Altri diritti

IL CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA: LA SUPREMA CORTE SI PRONUNCIA SULLA PORTATA DEL DISCRIMEN TRA L’IMPRENDITORE “COLLUSO” E L’IMPRENDITORE “VITTIMA” DELL’ORGANIZZAZIONE CRIMINOSA

by Dott.ssa Mariangela De Cesare on07 Novembre 2014

Riflessioni a margine della pronuncia della Suprema Corte n. 37726 del 15 settembre 2014.

1. Il caso

Con sentenza della Corte di Appello di Palermo del 2012 - in parziale riforma della pronuncia emessa in primo grado dal Tribunale di Sciacca - alcuni imprenditori agrigentini venivano condannati per aver preso direttamente parte al sodalizio mafioso mediante la stipula di accordi con “Cosa Nostra”, in virtù dei quali avvenivano scambi di favori tra le parti.

Gli imputati - mediante ricorso in Cassazione -censuravano l’assenza di prove sul proprio inserimento nell’associazione criminale e l’insussistenza dell’affectio societatis, asserendo, invece, di aver subito da parte della cosca stessa una intimidazione che li aveva degradati a vittime piuttosto che elevarli a protagonisti attivi del fenomeno criminoso.

La Sesta Sezione penale della Suprema Corte, il 15 settembre del 2014, con la sentenza in commento ha annullato la condanna con rinvio ad altra sezione della Corte Territoriale per un nuovo giudizio.

2. Il principio di diritto enunciato

“Secondo l’insegnamento di questa Corte, di cui alle note pronunce Mannino e Contrada, assume il ruolo di concorrente esterno nel delitto di associazione mafiosa colui che, pur essendo privo dell’affectio societas,fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo quale condizione necessaria per il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione, anche in relazione ad un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale, e diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso. L’efficienza causale di siffatto contributo è verificabile soltanto in virtù di un accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza dello stesso nella vita e nell'operatività del sodalizio criminoso. Con riferimento alla figura dell'imprenditore, in particolare, può considerarsi concorrente esterno, cioè "colluso" con la mafia, colui che stabilisce un rapporto sinallagmatico con la cosca tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l'imprenditore nell'imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell'ottenere risorse, servizi o utilità; diversamente è qualificabile  imprenditore "vittima" colui  che, soggiogato dall'intimidazione, non tenta di venire a patti con il sodalizio, ma cede all'imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un'intesa volta a limitare tale danno”.

3. Il commento

Con la pronuncia in esame la Cassazione Penale, nel ripercorrere brevemente la complessa problematica relativa all’ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p., traccia un netto discrimen tra la figura dell’imprenditore  “colluso” e quella dell’imprenditore “vittima” del sodalizio criminoso.

Più approfonditamente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella celebre sentenza Demitry del 1994, ripetutamente confermata nel caso Carnevale del 2003,  nel caso Mannino del 2005 e, da ultimo, nel caso Dell’Utri del 2012, si sono dimostrate favorevoli all’ammissibilità del concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa.

Preliminarmente è opportuno chiarire come, a norma dell’art. 110 c.p., si ha concorso di persone quando più soggetti insieme realizzano un reato, soggiacendo alla pena per questo stabilita. Tale figura è indicata come concorso eventuale di persone, quale manifestazione plurisoggettiva di un reato astrattamente monosoggettivo (come tale realizzabile anche da un solo soggetto), per distinguerlo da quello cd. necessario, in cui la pluralità di soggetti attivi è imposta dal legislatore tra gli elementi costitutivi del reato. Il codice penale non fornisce alcuna definizione di concorso di persone: tuttavia, la nozione giuridica dell’istituto può ricavarsi dall’art.110 c.p. che, in virtù della sua natura di clausola generale, ha la precipua funzione di integrare le disposizioni di parte speciale e di recuperare tipicità a tutte quelle azioni che, pur comportando un contributo alla realizzazione del fatto tipico, non sono da sole sufficienti ad integrare gli estremi della singola fattispecie criminosa.                                                   

Fatta tale doverosa premessa in ordine all’istituto del concorso eventuale ai fini dell’analisi del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, è possibile soffermarsi sulla figura dell’extraneus.

Nell’arresto giurisprudenziale del 2003, il Supremo Consesso chiarisce che assume la qualifica di concorrente esterno nel reato in parola  la persona che, priva dell’affectio societas, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo , dotato di effettiva rilevanza causale  ai fine della conservazione o del rafforzamento dell’associazione. Mutatis mutandis, il concorrente eventuale è colui che non vuole far parte dell’associazione ma al quale la stessa si rivolge nel momento in cui essa entra in una fase di “fibrillazione”, attraversa una fase patologica che per essere superata esige il contributo di un soggetto esterno.

Si consideri che la recente giurisprudenza, invece, ha precisato che l’ambito di applicazione della fattispecie de qua non può essere circoscritto all’apporto teso alla semplice “preservazione” del clan, dovendo essere altresì esteso ai contributi miranti al suo rafforzamento  (cd. fase espansiva).

Importanti puntualizzazioni, quanto all’efficienza causale del contributo, si rinvengono nella pronuncia del 2005 in cui le Sezioni Unite affermano che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, deve sortire una reale efficienza causale fungendo da condicio sine qua non per la concreta realizzazione del fatto criminoso. Quanto, in particolare, ai criteri attraverso cui procedere alla verifica dell’incidenza causale della condotta  ausiliatrice, nel richiamare la celebre sentenza Franzese del 2002, i Giudici di Legittimità sostengono che il riscontro in questione deve essere effettuato in concreto ed ex post.

L'elemento soggettivo, invece, viene ricostruito, ancora una volta in linea con le indicazioni della sentenza Mannino, come dolo diretto, nel senso "della coscienza e volontà, che l'agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato". Id est, è "sufficiente e decisivo dimostrare, con ragionamento completo e logico, quello che le Sezioni Unite hanno definitoil“doppio coefficiente psicologico”, ossia quello che deve investire, perché possa dirsi sussistente il reato, il comportamento dell'agente e la natura di esso come contributo causale al rafforzamento dell'associazione.

Alla luce di tali osservazioni, appare allora evidente che non può esservi spazio per la figura del dolo eventuale esplicitamente esclusa nella sentenza delle SU del 2005, così però come deve negarsi spazio alla figura del dolo intenzionale.

Spostando la lente di ingrandimento sulla figura dell’imprenditore colluso, ex professo è opportuno cogliere la reale portata del fenomeno mafioso così come viene ad atteggiarsi nelle odierne società.

Le mafie, nelle loro manifestazioni più attuali, si insinuano pervasivamente nel tessuto economico dei Paesi in cui operano alterando la libera iniziativa ed il normale funzionamento della moderne economie di mercato. Proprio in siffatto contesto si spiegano le varie commistioni tra mafia e imprenditoria da cui sono emerse numerose problematiche giuridiche, direttamente collegabili alla dimensione economica delle associazioni criminose. Il tema dei rapporti tra mafia-imprenditoria, pertanto, si presenta estremamente variegato e complesso, specie nel caso in cui la relazione tra soggetto debole e soggetto forte trascende nella strumentalizzazione della realtà di impresa a vantaggio degli interessi economici del gruppo mafioso.

Alla luce  della natura a forma libera del reato associativo mafioso, e stante la generalità ed astrattezza della definizione contenuta nella relativa norma incriminatrice, gli studi sociologici si sono “spinti” ad enucleare un certo numero di “fenotipi”, definiti in base alle caratteristiche e alle modalità dell’interazione con l’organizzazione mafiosa. Si è, a proposito, discettato in ordine alla figura  dell’imprenditore “colluso” e “subordinato”, a cui si è aggiunta quella dell’imprenditore “acquiescente”, “resistente” e “connivente”.

 La distinzione fondamentale, più nel dettaglio, è quella tra imprenditore “vittima” e imprenditore “colluso”. A coloro che vengono definiti “vittime” infatti, è imposta una protezione passiva: costoro sono assoggettati alla mafia attraverso un rapporto fondato sull’intimidazione o sulla pura coercizione. La categoria in parola ricomprende al suo interno due sottocategorie rappresentate dagli imprenditori “oppressi” e “dipendenti”: mentre i primi sono legati all’organizzazione criminosa da un rapporto di puro dominio, i secondi sono costretti ad ottenere, per poter svolgere la loro attività, l’autorizzazione da parte della stessa cosca. Viceversa, gli imprenditori che vengono definiti collusi possono usufruire di un tipo di protezione attiva, stabilendo con l’associazione criminale un rapporto interattivo fondato, anziché sulla coercizione, su legami personali di fedeltà, su un agire associativo motivato razionalmente rispetto allo scopo e sulla prospettiva di un vantaggio economico. Gli imprenditori collusi, infatti, sono legati ai mafiosi mediante incentivi, non solo materiali ma anche simbolici, che alimentano interazioni reciprocamente vantaggiose cementate da legami personali di fedeltà, e che consentono agli imprenditori di poter negoziare i termini della protezione. Inoltre, mentre gli imprenditori subordinati sono costretti a orientare il proprio agire all’esterno in maniera statica in quanto fortemente vincolati dalla presenza mafiosa, quelli collusi sviluppano all’esterno un tipo di azione dinamica: in altri termini gli imprenditori collusi stabiliscono un rapporto di scambio di tipo clientelare basato sulla cooperazione reciproca e caratterizzato dalla stabilità, che coinvolge interamente la loro attività. La gamma di prestazioni rese da questi “clienti” al sodalizio mafioso è molto varia: si va dalla semplice offerta di informazioni, all’accesso a determinati circuiti politici e finanziari, fino alla costituzione di vere e proprie società fra cliente-imprenditore e  mafioso, come accade spesso nel campo delle opere pubbliche.

La necessità di individuare una “sicura” linea di confine tra le due tipologie di imprenditori ai fini della rintracciabilità della effettiva responsabilità in sede penale che andasse oltre gli studi classificatori della scienza sociale fin qui, seppur brevemente, ricostruiti, si rinviene nell’obiter dictum della pronuncia in commento. Infatti, i giudici della Sesta Sezione penale della Suprema Corte hanno affermato il seguente principio: “è configurabile il concorso esterno nel reato associativo mafioso quando l’imprenditore stipula un patto con l’associazione mafiosa in modo da dare origine ad un rapporto sinallagmatico che assicuri benefici ad entrambe le parti: l’imprenditore guadagna una posizione rilevante sulla fetta di mercato nella quale opera, mentre il sodalizio mafioso ottiene in cambio risorse, servizi ed utilità. La figura dell’imprenditore colluso si distingue dalla figura dell’imprenditore-vittima, in quanto quest’ultimo – soggiogato dallo strapotere dell’associazione criminale – può tutt’al più scendere a patti con essa per limitare, per quanto possibile, l’ingiusto pregiudizio che la relazione col sodalizio è atta a produrgli”..                                                                                                                                                                                                        Così opinando,posta una vicenda pattizia formalmente comune ad entrambe le figure di imprenditore, la Cassazione penale ne individua l’elemento di differenziazione nel fine perseguito e nell’allineamento tra i due contraenti: l’imprenditore “vittima” scende a patti perché soggiogato dalla consorteria mafiosa ed al fine di limitare i danni; l’imprenditore “colluso” è un contraente che costruisce il rapporto sinallagmatico per conseguire importanti benefici dall’appoggio assicurato dall’associazione, e lo costruisce ragionando, non da soggetto intimidito e sopraffatto, ma da contraente che sta esercitando integralmente la propria libertà di autodeterminazione in danno all’ordine pubblico.

Una pronuncia innovativa quella in esame che, seppur incidentalmente, ha il merito di aver per la prima volta colto la reale portata del distinguo tra la le due tipologie di imprenditori che “scendono a patti” con le organizzazioni criminose, non sempre di immediata percezione ed inopinabile individuazione nelle pregresse applicazioni giurisprudenziali.

Ultima modifica il 08 Novembre 2014