un'interpretazione convenzionalmente orientata della norma interna contrastante e, ove ciò non sia possibile, dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale in relazione all'indicato parametro senza che sia possibile procedere direttamente alla disapplicazione della norma interna contrastante.
La Corte Costituzionale sarà pertanto tenuta a verificare in via preliminare se la norma CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte Europea, si ponga in contrasto con altre norme della nostra Costituzione, e solo in tal caso eccezionale dovrà statuire l'inapplicabilità della norma convenzionale ( è la cd. teoria dei controlimiti). Proprio tale teoria dei controlimiti va a specificare meglio il discrimen tra norme CEDU e diritto dell'Unione, in quanto rispetto alle norme dell'Unione il giudice delle leggi italiano può opporre solo il contrasto con i principi generali dell'ordinamento e i diritti inviolabili dell'uomo. La Corte Costituzionale è andata a definire tale linea di distinzione nella pronuncia 80/2011, negando decisamente l’equiparazione tra norma CEDU e diritto dell'Unione paventata a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 Dicembre 2009).
Ma per meglio comprendere la portata innovativa della CEDU però, è opportuno analizzare il principio che più di ogni altro in materia penale si pone a tutela del singolo a fronte del potere sanzionatorio: il principio di legalità, con particolare riferimento al suo corollario del divieto di retroattività della norma penale sopravvenuta di carattere “sfavorevole”. Tale principio trova espresso riconoscimento sia a livello costituzionale all'art. 25 che a livello primario all'art. 2 c.p., in cui la potestà punitiva dello Stato viene agganciata alla preesistenza di una norma incriminatrice rispetto al fatto commesso. Anche l'art. 7 CEDU però disciplina espressamente i principi di legalità (della pena e del precetto) e di irretroattività della legge penale sfavorevole. Potrebbe dunque sembrare un mero doppione delle norme interne, ma l'art. 7 CEDU ha invece introdotto novità dirompenti in quanto pur non discostandosi dalla sostanza degli artt. 25 Cost. e 2 c.p. va ad incidere sulla loro estensione applicativa. La forte rilevanza di tale disposizione la si può evidenziare laddove si consideri la facoltà della Corte EDU di forgiare una concezione autonomista degli illeciti e delle pene, discostandosi dalla qualificazione datane negli ordinamenti nazionali. Infatti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha considerato “pena” ciò che tale non è nell'ordinamento italiano sulla base di quattro criteri, alla sussistenza di anche uno solo di essi, la sanzione sarà ritenuta avente carattere penale: 1) collegamento con l'illecito penale; 2) finalità della sanzione ( se afflittiva, retributiva, punitiva); 3) gravità in astratto della misura applicabile e gravità in concreto della misura applicata; 4) qualificazione fatta dall'ordinamento nazionale che qualifica come pena la misura.
Qual è pertanto l'ottica che sta alla base della concezione autonomista data dalla Corte EDU ? Si tratta di un'ottica di garanzia a carattere sostanziale più che formale dei soggetti e che prescinde dal nomen iuris eventualmente dato dagli ordinamenti nazionali. E' quanto accaduto in merito alla qualificazione giuridica di alcune tipologie di confisca previste dal nostro ordinamento (per es. la confisca urbanistica ex art. 44 DPR 380/01) per le quali, la Corte EDU, valutatane l'afflittività ( e dunque strettamente attenendosi ad uno almeno dei quattro criteri sopracitati), il collegamento con la commissione di un reato, nonchè l'irrogazione ad opera di un'Autorità giudiziaria penale, l'ha viceversa ricondotta nell'alveo delle sanzioni penali con la conseguenza di precluderne l'applicabilità in mancanza di un fatto di reato completo di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi, stante l'esigenza del rispetto dei principi di colpevolezza ed autoresponsabilità ( Caso Punta Perotti 2009). Infatti le sanzioni amministrative possono essere comminate al semplice verificarsi del loro presupposto (es: le sanzioni tributarie, ove in caso di mancato pagamento di una tassa si viene sanzionati automaticamente) e prescindono dalla valutazione soggettiva, mentre la pena soggiace per la sua afflizione al principio di legalità del reato.
Un'ulteriore questione attinente alla rilevanza dell'art. 7 CEDU nell'ordinamento nazionale ha riguardato la possibilità di ricavarne in via interpretativa anche l'affermazione del principio di retroattività favorevole della legge sopravvenuta. L'inquadramento da parte della Corte Europea della confisca come pena, piuttosto che come misura di sicurezza ha determinato l'impossibilità ex art. 2, co. 4, c.p. di applicare retroattivamente la normativa vigente al tempo dell'esecuzione e sopravvenuta rispetto alla commissione del fatto, come invece sarebbe stato possibile in base all'art. 200 c.p. previsto per le sole misure di sicurezza ( non connotate del carattere della retribuzione). La ratio del principio di retroattività favorevole sta nella necessità di evitare disparità di trattamento tra fatti sostanzialmente analoghi. Tale principio fu affermato chiaramente per la prima volta nella sentenza Scoppola c. Italia, in cui la Corte Europea ha affermato che il principio di retroazione in melius è ricavabile direttamente dall'art. 7 CEDU. Notevoli sono i riflessi che tale pronuncia ha comportato nell'ordinamento italiano, ove la copertura costituzionale del principio si arricchisce del parametro ex art. 117 Cost., con la conseguenza che la violazione dell'art. 7 CEDU sotto il profilo della necessaria retroattività della norma penale più favorevole sopravvenuta determina l'illegittimità costituzionale per contrasto con la suddetta norma interposta. Interessante a tal fine è l'evoluzione giurisprudenziale inerente l'istituto della confisca antimafia, ove la questio iuris di partenza attiene alla possibilitàdiapplicareretroattivamenteladisciplina introdottadal d.l. n. 92/2008, convertito nella L. 125/2008, e dalla legge n. 94/2009, che ha riformato la L. 575/65 in materia di misure di prevenzione patrimoniale, in base alla considerazione che sarebbe applicabile alle misure di prevenzione il disposto dell’art. 200 c.p. previsto per le misure di sicurezza ( che tengono conto solo della pericolosità del soggetto e non del disvalore penale della condotta), alla luce dell’equiparazione della natura delle misure di prevenzione a quella delle misure di sicurezza; oppure se non sia applicabile alle misure di prevenzione patrimoniali il principio di irretroattività, di cui all’art. 11 preleggi e 2 cod. pen., nonché all'art. 25 Cost. La Corte Costituzionale ha ritenuto che la confisca antimafia e, più in generale, il sistema legislativo della prevenzione patrimoniale antecedente la riforma sia conforme ai diritti costituzionali previsti dagli artt. 41 e 42 Cost., in quanto la confisca sia rivolta non ai beni di provenienza illegittima come tali, ma in quanto posseduti da persone che sono ritenute pericolose, poichè la pericolosità del bene è considerata dalla legge derivante dalla pericolosità della persona che ne può disporre.Infatti, l'art. 41 Cost. sancisce la libertà per ogni cittadino di intraprendere delle attività economiche a condizione che esse non siano in contrasto con l'utilità sociale o dannose per la sicurezza, la libertà e la dignità umana, mentre l'art. 42 sancisce il fondamentale diritto di proprietà connotandolo di una forte valenza “sociale” (cfr. art. 42, 2°co., Cost). Le misure di prevenzione, in tal senso, non sono fondate sulla pericolosità, intesa come pericolo della commissione di futuri reati, ma piuttosto sulla sussistenza di indizi circa l’attuale o la passata commissione di determinati reati. In relazione alla natura della confisca quale misura di prevenzione, in base all'orientamento conformatosi alla sentenza Simonelli (Cass.SS. UU. nr. 18/96) , la Suprema Corte non solo ha negato il carattere sanzionatorio di natura penale della confisca ex art. 2 ter L. 575/65, ma anche quello di un provvedimento di prevenzione, essendo incompatibile la sua definitività con il carattere preventivo. Gli ermellini hanno ritenuto che la confisca di prevenzione andasse ricondotta nell’ambito di quel “tertium genus” costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza prescritta dall’art. 240, comma 2, c.p. rinvenendosi la sua ratio nell’esigenza di colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti perché acquistati da soggetti socialmente pericolosi senza il supporto di una proporzionata capacità reddituale ed economica. Ratio che ben si ricollega, seppur con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240, nn. 1 e 2 c.p. che, come è noto, prescindono dalla condanna, con la conseguente applicabilità anche nel caso di proscioglimento, quale che sia la formula (art. 205 cod. pen.). La ratio, si precisa ancora nella sentenza Simonelli, consiste nell’eliminazione dal circuito economico dei beni di origine criminale. Questo orientamento è stato ripetutamente confermato dalla Suprema Corte anche in seguito alle riforme del 2008 e del 2009, che hanno consentito l’applicazione delle misure patrimoniali anche nell’ipotesi in cui non sia possibile applicare le misure personali in seguito alla morte del proposto o alla cessazione della sua pericolosità, di cui non si richiede più il carattere dell’attualità ( sempre facendo riferimento ai canoni delineati dall'art 41 e 42 Cost dell'interesse comune prevalente). La pericolosità del soggetto veniva valutata in base alla sussistenza di indizi circa lo svolgimento presente di attività criminale, nel senso che la confisca di prevenzione non si fondava tanto sulla pericolosità ante delictum, ma sull’accertamento di una sorta di pericolosità praeter probationem delicti, e di come, quindi, la ragione della confisca si atteggiava, ancor prima delle recenti riforme, in termini di c.d. pericolosità reale: nell’eliminazione dal circuito economico dei beni di origine criminale. In particolare, la sentenza Ferrara del 2013, prende posizione sulla natura della confisca di prevenzione stabilendo che essa si fonda e si giustifica sull’origine criminale dei beni, che rappresentano un fattore di inquinamento del mercato e dell’economia, e che, quindi, devono essere confiscati per ciò solo, indipendentemente da valutazioni in termini prognostici di pericolosità criminale di colui che ne abbia la titolarità o disponibilità; si supera definitivamente quell’orientamento sostenuto dalla Corte Costituzionale in base al quale la pericolosità del bene è considerata dalla legge derivare dalla pericolosità della persona che ne può disporre. In base a tale orientamento la Suprema Corte equipara la confisca di prevenzione alle misure di sicurezza e quindi ritiene applicabile l’art. 200 c.p. Tale orientamento che sembrava granitico venne bruscramente interrotto con la sentenza Occhipinti, in cui si affermò la natura oggettivamente sanzionatoria della confisca misura di prevenzione, applicando di conseguenza il principio di irretroattività. Nella sentenza in questione la Corte osserva che non è più possibile equiparare la confisca misura di prevenzione ad una misura di sicurezza laddove è venuto meno il comune presupposto e cioè il giudizio di pericolosità sociale attuale. Tale modello di confisca proposto dalla sentenza Occhipinti non è stato esente da critiche da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha sempre negato la natura sanzionatoria della forma di confisca in esame e quindi l’applicabilità ratione materiae dell’art. 7 CEDU, fondandosi sul riconoscimento della loro natura preventiva basata sul giudizio di pericolosità sociale (dal caso Labita la Corte di Giustizia, ha riconosciuto la compatibilità con la CEDU delle misure di prevenzione solo in quanto fondate su una valutazione di pericolosità sociale del destinatario).
Rimane altresì un problema fondamentale da sciogliere, infatti, attribuire natura sanzionatoria alla confisca di prevenzione e, quindi, applicare il principio di irretroattività, nel senso che non sarebbe possibile confiscare i beni se le condotte che si assumono alla base dell’adozione della misura medesima non siano antecedenti alle riforme del 2008 e del 2009, comporta un stravolgimento della ratio della stessa riforma, che sgancerebbe l’applicazione delle misure personali dalle patrimoniali e non richiederebbe più l’attualità della pericolosità proprio al fine di consentire la confisca. La sentenza Occhipinti evidenzia che una parte della giurisprudenza richiedendo la correlazione temporaletra la pericolosità sociale e l’acquisto dei beni, continuerebbe a preservare il legame tra la confisca e la pericolosità sociale. Nell’ordinanza con cui si richiede alle Sezioni Unite di prendere posizione su tale profilo (perché la correlazione temporale sembrerebbe essere l’ultimo baluardo che potrebbe preservare la natura preventiva della confisca antimafia), e cioè sulla necessità di accertare il “legame logico e temporale che deve intercorrere tra emergere della pericolosità e momento di acquisizione delle utilità da ablare”, emergono due orientamenti: il primo nega la rilevanza della correlazione temporale consentendo di confiscare anche beni acquisiti in epoca precedente, in quanto si contesti l’origine illecita che può essere confutata dal prevenuto (la finalità della confisca misura di prevenzione rimane quella di sottrarre i beni al circuito criminale consentendo di colpire anche l’intero patrimonio in base alla presunzione di origine illecita). Tale orientamento, come abbiamo visto, è fatto proprio dalla sentenza Occhipinti. Mentre l'altro orientamento richiede la correlazione temporale tra pericolosità sociale e acquisizione dei beni non limitandosi a richiedere l’accertamento incidentale della pericolosità sociale del prevenuto, anche se non più attuale, ma necessitando che tale pericolosità sussista al momento dell’acquisto del bene, con la conseguenza, che sarà possibile confiscare solo i beni acquistati in correlazione temporale con tale pericolosità. A tal secondo orientamento invece aderisce la sentenza Castello. Seppur con alcune remore dottrinarie si è concluso che in ipotesi di irrogazione disgiunta della misura preventiva patrimoniale rispetto a quella personale, non può prescindersi da un accertamento della pericolosità sociale del proposto. Entro questi limiti, non può ritenersi applicabile alla materia delle misure di prevenzione, ed, in particolare, di quelle patrimoniali, il principio di irretroattività di cui agli artt. 25 Cost. e 2 c.p., bensì continua a trovare applicazione, in via estensiva, l’art. 200 c.p. Questa interpretazione appare in linea anche con la CEDU, così come interpretata dalla Corte EDU, che ha sempre riconosciuto il carattere preventivo della confisca in esame, negando così l’applicazione delle garanzie della materia penale alla forma di confisca in esame.
Altro profilo di sicura rilevanza è quello emerso nella sentenza G. Stevens e altri c. Italia in cui ci si chiese, così come nel caso Nykanen c. Finlandia, se fossero da qualificarsi come pene le sanzioni amministrative tributarie e dove i ricorrenti lamentavano una violazione del principio delne bis in idem sancito dall’articolo 4 del Protocollo n. 7. a fronte della contestazione mossa loro dalla CONSOB per la violazione dell’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 ("manipolazione del mercato"). A fronte di tale contestazione la CONSOB comminò una serie di sanzioni amministrative pecuniarie. I ricorrenti invocarono a loro difesa l'art. 6 CEDU, ossia l'articolo che impone l'osservanza del principio dell'equo processo nell'applicazione delle misure di sicurezza. Nel caso di specie, la Corte constatava innanzitutto che le manipolazioni del mercato ascritte ai ricorrenti non costituivano un reato di natura penale nel diritto italiano. Questi comportamenti sono in effetti puniti con una sanzione qualificata come «amministrativa» dall'articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998. Ciò non è tuttavia decisivo ai fini dell'applicabilità del profilo penale dell'articolo 6 della Convenzione, in quanto le indicazioni che fornisce il diritto interno hanno un valore relativo. La Corte rammentava che la CONSOB, autorità amministrativa indipendente, ha tra i suoi scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l'efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici (si tratta di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale). Tenuto conto dell'importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritenne che le sanzioni in causa rientrassero, per la loro severità, nell’ambito della materia penale. Il Governo, dal canto suo, osservava che l’Italia aveva reso una dichiarazione secondo la quale gli articoli 2 – 4 del Protocollo n. 7 dovevano applicarsi solo agli illeciti, ai procedimenti e alle decisioni che la legge italiana definisce penali e che la legge italiana tuttavia non definiva penali gli illeciti sanzionati dalla CONSOB. I ricorrenti replicavano invece che l’articolo 4 del Protocollo n. 7, per il quale non è prevista alcuna deroga ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione, riguardasse un diritto rientrante nella sfera dell’ordine pubblico europeo. Per quanto riguarda la questione di stabilire se il procedimento dinanzi alla CONSOB e il procedimento penale fossero relativi allo stesso illecito, i ricorrenti rammentarono i principi enunciati dalla Grande Chambre nella causa Zolotoukhine c. Russia ( n. 14939/03, 10 febbraio 2009), in cui la Corte concluse affermando che: “è vietato perseguire una persona per un secondo illecito quando quest’ultimo è basato su fatti identici o fatti che sono in sostanza gli stessi". Secondo i ricorrenti, era proprio ciò che si era verificato nel caso di specie. La Corte proprio riprendendo i principi enunciati nella causa Zolotoukhine delineò, con la sentenza in commento, quello che è sostanzialmente il mutamento di prospettiva verso una concezione sostanziale del reato, richiedendo una concreta valutazione dei fatti e sancendo che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo illecito nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi siano fatti sostanzialmente identici a quelli contestati con il primo illecito.