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Pubblicato in Altri diritti

Diritto all'oblio: Cronaca di un diritto non ancora garantito

by Avv. Luca Bellezza on06 Giugno 2015

Il diritto all'oblio è stato per lungo tempo solamente una pur suggestiva espressione, confinata, tutt'al più, nei dibattiti tra giuristi specializzati nella materia.

Improvvisamente, però, è salito alla ribalta dei mass media nel maggio scorso grazie ad una  sentenza della Corte di Giustizia Europea, da più parti addirittura definita storica.

Ma cos'è il diritto all'oblio??

Se volessimo sintetizzare al massimo potremmo definirlo come “Il diritto ad essere dimenticato in relazione a dati pregiudizievoli, non pertinenti, non necessari e comunque non collegati con fatti di cronaca”.

In realtà, al netto delle fredde definizioni giuridiche, il diritto all'oblio è, a parere di chi scrive, tra i diritti connessi alle nuove tecnologie, quello che presenta maggiori ricadute dirette su un tema come quello della protezione dei dati personali e, di conseguenza, sul pieno riconoscimento che la dignità personale deve venire ad avere anche, e soprattutto, nell'utilizzo quotidiano che si fa della rete.

Non dovrebbe essere infatti pacificamente riconosciuto il diritto di ciascuno di noi a non incorrere nel rischio che notizie riguardanti la propria persona, magari concernenti fatti accaduti molto tempo addietro e non più attuali, possano essere viste da chiunque? O, altrettanto pacificamente, non si dovrebbe veder garantito il diritto di chi, molti anni prima, solo per gioco, abbia postato video che con l'andare del tempo, però, vorrebbe non fossero più visibili?

Eppure la tutela di simili diritti risulta estremamente accidentata.

Le legislazioni nazionali quasi ignorano le problematiche sottese ed anche il legislatore comunitario, seppur a fatica provi a proporre soluzioni maggiormente congrue, non sempre risulta poi dare risposte soddisfacenti.

Diventa perciò estremamente farraginoso poter dare risposta a chi si sente giustamente leso nella  propria dignità personale.

In questo quadro una primo squarcio di luce è stato aperto, fuori dall'utilizzo di termini retorici, dallaSentenza del 13 maggio 2014 da parte delle Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

Una premessa è d'obbligo.

La portata delle sentenza non sta tanto nel principio di diritto stabilito dalla Corte secondo cui se un cittadino reputa che le informazioni che lo riguardano non siano aggiornate, può chiederne la rettifica o la deindicizzazione, cioè l'impossibilità di risalire a esse, direttamente al motore di ricerca.

Infatti, la medesima statuizione era stata fatta propria, nel nostro ordinamento, già dalla Corte di Cassazione,con la sentenza n. 5525/2012.

Nell'esprimersi in relazione ad un caso nel quale siera chiesto, senza successo, all’autorità giudiziaria, di ordinare ad un editore l’aggiornamento di un vecchio articolo presente nell’archivio on-line di un famoso quotidiano che dava conto di un procedimento penale in essere, senza poi dare conto del successivo proscioglimento, infatti, la  Suprema Corte aveva espressamente riconosciuto l’esistenza di un diritto all’oblio, inteso come diritto alla tutela della propria (attuale) identità personale e morale nella sua proiezione sociale, stabilendo, nel caso concreto un obbligo a carico dell’editore di predisporre un sistema idoneo a segnalare la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia.

La straordinaria rilevanza della decisione della Corte Europea, piuttosto, risiede in due specifici punti.

Da un lato, è stato riconosciuto che i motori di ricerca sono comunque responsabili del trattamento dei dati personali "pescati" su siti gestiti da terzi.

Così facendo, si è ritenuto, quanto meno per la giurisdizione europea, i motori di ricerca in una condizione simile a quella degli editori, con l'obbligo anche per i primi di assumersi la responsabilità di tutto quello che si muove nella rete.

L'altra vera “rivoluzione”, poi, la si è avuta affermando la giurisdizione anche su motori di ricerca che abbiano una sede legale esterna al Vecchio continente.

Conseguenza immediata di ciò è stato che, nel giro di pochi mesi, il motore di ricerca più conosciuto al mondo, Google, pur avendo la propria sede legale in America, ha dovuto farsi carico di mettere a disposizione degli utenti, anche europei, un modulo per richiedere la rimozione di link che contengono informazioni personali «inadeguate o non rilevanti».

Un'accurata indagine, svolta sul tema all'inizio di quest'anno dal Sole 24 ore, avente ad oggetto le richieste inviate a Google a far data dalla Sentenza del maggio scorso, dimostrano una realtà estremamente interessante.

Dal 1 giugno alla fine del 2014, Google ha esaminato un totale di quasi 600.000 url, a fronte di  oltre 157.255 richieste ricevute; tale discrasia è dovuta al fatto che nel form di richiesta, è possibile inserire più url relativi alla stessa notizia.

Quanto alla percentuale di risoluzione positiva si è dato l'ok alla rimozione nel 41,9% dei casi, mentre nel rimanente 58,1% le richieste sono state bocciate.

I numeri appena richiamati riguardano, naturalmente tutti gli Stati europei, mentre con esclusivo riferimento alle richieste pervenute dal nostro Paese, vi sono state 12.249  richieste di rimozione per un totale di 42.685 link, con una percentuale delle rimozioni decisamente più bassa rispetto alla media sopra evidenziata, il 24,2%.

La forte differenza tra richieste formulate ed accettate, soprattutto con riferimento a quelle provenienti da utenti italiani, non può non far riflettere, in primo luogo sull'ancora più evidente esigenza di una regolamentazione, vera e non di riflesso, della materia,

E' evidente, infatti, che non possa essere una soluzione lasciare in mano agli stessi motori di ricerca la decisione ultima su cosa possa essere tolto o meno.

E' altrettanto evidente che la soluzione da più parti indicata come quella maggiormente idonea a tutelare in primo luogo gli utenti, ovverosia la previsione espressa per i fornitori di servizi online di dover passare dalla regola dell’opt-out (in cui i dati dell’utente, a meno di una sua esplicita richiesta, appartengono al fornitore) a quella dell’opt-in (dove, al contrario, i dati appartengono solo all’utente, ed è lui a decidere come usarli) non abbia ancora visto la luce, nonostante la proposta di riforma globale a tutela della privacy degli utenti sul web, presentata già nel 2012 dalla Commissione Europea. 

Peraltro, se l'ordinamento comunitario, pur spinto dalle nobili intenzioni di cui sopra, stia forse peccando di eccesso di zelo nell'affrontare il tema, quello interno, purtroppo, è ancor più in difetto.

Vi è stata sì, la presentazione di taluni disegni di legge con cui in qualche modo si è tentato di regolamentare la problematica, primo tra tutti il n. 3491 del 2012 dal quale si è poi partiti nella discussione, senza che, però, anche in questo caso, ad oggi si sia arrivati all'approvazione definitiva da parte della Camere.

Non solo, le soluzioni ivi adottate sono state oggetto di forti e molteplici osservazioni critiche.

In primo luogo perché si è pensato di regolamentare la materia del diritto all'oblio all'interno di una più ampia riforma della materia della diffamazione a mezzo stampa, volendo così cogliere assonanze,  francamente non comprensibili, tra le due problematiche.

Di più.

Il sacrosanto diritto di vedere rimossi quei risultati che non siano più pertinenti ed attuali, finalmente riconosciuto, rischierebbe, però, nella formulazione adottata, di portare a forme di preventiva deindicizzazione, soprattutto laddove le controparti non fossero testate online, ma, ad esempio, semplici blogger, con il rischio di innumerevoli dispute sul dove inizi la tutela della protezione della propria dignità personale e dove, invece, si vada ad intaccare la libertà di espressione.

Il risultato finale, è che, purtroppo, sia in ambito comunitario che statale, ad oggi, si continua a rimanere privi di effettive tutele a favore di quei soggetti lesi nella propria dignità personale ai quali non resterà, per il momento che “sperare nella bontà di Google”.

Ultima modifica il 06 Giugno 2015