Queste esigenze, nel diritto penale, hanno convogliato verso forme di inasprimento delle pene che si scontrano con il quotidiano abuso di violenze perpetrate a danno dei minori, per cui nessuna “giustizia” sembra mai abbastanza. In tale contesto poi, il mutamento dei costumi sociali ha imposto una rivisitazione, in chiave sempre più laica della rimproverabilità del fatto, con conseguente disinteresse della sfera intima dei soggetti, per cui le uniche “devianze” inaccettabili, sono quelle materialmente offensive del bene giuridico. Il legislatore si è, quindi, orientato verso l’unica soluzione praticabile dove - non essendoci spazio per il giudizio morale - l’alternativa è una maggiore responsabilizzazione dei soggetti in posizione di protezione dei minori.
Queste osservazioni possono trovare riscontro nei recenti arresti giurisprudenziali che dimostrano quanto l’evolversi dei costumi incide anche sulle forme di tutela dei minori.
Si pensi alla modifica dell’art. 527 c.p. (cfr., D. Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8) dove l’atto osceno è diventato una contravvenzione, salvo che il fatto sia commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano. L’oscenità, difatti, era un ‹‹carattere intrinseco agli atti […] che si qualificavaper la loro contrarietà obiettiva al comune sentimento del pudore›› (Cass., Pen., Sez. III, 6 gennaio 1983 n. 64), come ‹‹l’esibizione in pubblico degli organi genitali accompagnata da palpamenti e gesti diretti a sottolinearla››(Cass. Pen., Sez. III, 6 dicembre 1984, n. 10898), ovvero ‹‹ogni comportamento anche meramente esibizionistico, attinente alla sfera della sessualità›› come ‹‹una masturbazione ostentata›› ed non effettiva (Cass. Pen., Sez. III, del 25 settembre 1985, n. 8159) e, addirittura anche ‹‹la sosta con un’auto in luogo pubblico, in posizione visibile ed illuminata da lampioni e con transito fitto di auto e di persone, indossando un “miniabito” che lasci in mostra gli organi genitali›› (Cass. Pen., Sez. III, 8 agosto 1996 n. 7786). Non da ultimo, considerata la diversa incidenza che un atto manifestamente diretto a stimolare fantasie di natura sessuale poteva avere sui minori che non abbiano raggiunto la piena maturità psicologica, era da considerarsi atto osceno lacosiddetta ‹‹lap dance, allorché lo spettacolo si svolga in un locale, al quale possono accedere anche persone minorenni e le caratteristiche dello spettacolo non siano state comunicate in precedenza›› (Cass. Pen., Sez. III,sentenza 9 febbraio 2005, n. 4701).
Ebbene, a distanza di pochi anni, i risvolti pratici della depenalizzazione sono evidenti, per cui se un soggetto compie atti di autoerotismo a bordo della propria autovettura, in luogo pubblico ed in presenza di una ragazza minorenne, ma non vi è prova che l’episodio si sia svolto nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori, non può dirsi integrato il fatto tipico; a nulla rilevando che la minorenne si sia ritrovata ad essere spettatrice dell’esibizione (Cass. Pen., Sez. III, 1 marzo 2017, n. 10025). L’anticipazione della soglia di punibilità del fatto, in sostanza, passa dal pericolo presunto al pericolo concreto.
Tale soluzione - confrontata alle precedenti - appare poco ragionevole, sebbene sia perfettamente aderente la nuova veste dell’illecito penale: manca la prova dell’elemento oggettivo ovvero che il fatto sia commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori. A queste osservazioni si potrebbe contestare che, in questo modo, lo spazio di pochi metri dai luoghi richiamati dalla norma, potrebbe fare la differenza in termini di rilevanza del fatto e, conseguentemente, di tutela del bene giuridico; ne consegue che l’unica valutazione logica sul discrimine del locus commissi delicti imposto come scelta di politica criminale è che l’agente, ponendo in essere la condotta in “quei luoghi” conduca la sua azione, accompagnato da un atteggiamento consapevolmente e volontariamente orientato al pericolo di offesa al bene giuridico del minore; e non può che essere questa l’unica ratio, se confrontata con una pronuncia sul caso di un soggetto che, praticando atti di autoerotismo davanti a due maggiorenni nei pressi di una cittadella universitaria, è stato considerato responsabile di mero illecito amministrativo e non più di delitto (Cass. Pen., Sez. III, 6 settembre 2016, n. 36867). A ciò si aggiunga anche una diversa considerazione della “maturità psicologica” del minore: si pensi alle pratiche del sexting attraverso cui i minori, tramite l’utilizzo del web, scambiano immagini e/o video a sfondo sessuale ad amici, adulti e anche sconosciuti; tale pratica non trova spazio di tutela nell’ordinamento italiano, al punto che la produzione di materiale pornografico ad opera dello stesso minore raffigurato in modo autonomo, consapevole, non indotto o costretto, osta ai fini della configurabilità delle fattispecie astratte di reato per difetto di elemento costitutivo dei reati di pornografia minorile ex art. 600 ter c.p. (Cass. Pen., Sez. III, 21 marzo 2016, n.11675).
Accanto a queste ipotesi, si collocano soluzioni diverse che spingono verso una maggiore responsabilizzazione di coloro che si trovano nei “luoghi di protezione” dei minori come le mura domestiche. Si pensi al reato di maltrattamenti ex art. 572 cod. pen. la cui rilevanza penale è stata riscontrata anche nel caso di condotte considerate ‹‹in parte ordinarie, in parte poco urbane, in altra parte frutto di sottocultura e di maleducazione, iscrivibili in una mentalità maschile poco aperta, riconducibile ad una mascolinità retrograda e superata […]per cui anche un intento intermittentemente scherzoso o giocoso non esclude certo il dolo del reato›› (Cass. Pen., Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 10901). Sempre in quest’ambito, si segnala la sussistenza dell’aggravante di nuovo conio ex art. 61, 1 co., n. 11 quinquies ovvero l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza; la Cassazione ha affermato che ‹‹è configurabile tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando la sua presenza non sia visibile all’autore del reato, se questi, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l’ordinaria diligenza›› (Cass. Pen., Sez. I, 14 marzo 2017, n. 12328). Si fa riferimento al concetto di violenza domestica, inclusiva di ogni genere di condotte di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o di un’unità domestica ovvero tra coniugi o ex coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore della violenza condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (Convezione di Istanbul, del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011); ergo, è sufficiente che il minore percepisca la condotta penalmente sanzionata non essendo richiesto che il fatto sia commesso davanti ai suoi occhi, anche quando la presenza del minore non sia visibile dall’agente (il quale, ovviamente, ne abbia consapevolezza o avrebbe dovuto averne usando l’ordinaria diligenza). Nel caso, poi, in cui l’atto venga posto in essere in presenza del minore questi è legittimato a costituirsi parte civile (Cass. Pen., Sez. III, 27 ottobre 2016, n. 45403), essendo considerato egli stessa vittima e persona offesa del reato.
In definitiva, le violenze e gli abusi sui minori, per quanto possano essere deprecabili, sono rilevanti solo se edificati sui principi di offensività e di colpevolezza per il fatto ovvero compatibili con le scelte di politica criminale del sistema penale. La consapevolezza dell’offesa, allora, rappresenta il discrimine tra il giudizio morale destinato a non appagare la sete di “giustizia sociale” e la volontà criminogena che, quando è propria dei soggetti di tenuti alla protezione del minore, può assurgere a maggiore vigore nella pretesa punitiva della “giustizia statale”.