Pubblicato in Altri diritti

FUNZIONE “UMANA” DELLA PENA E POPULISMO PENALE ALLA LUCE DELLA Cass. Pen., Sez. 1, 22 marzo 2017, n. 27766

by Avv. Valentina Picone on05 Luglio 2017

L’epoca della tardo modernità è caratterizzata dal declino dello Stato autoritario, dal rischio e dall’incertezza, dove la funzione del diritto penale 

si è liquefatta, forgiando le scelte di politica criminale che, affannosamente, cercano di mettere a tacere la sete della giustizia della collettività. La visione generosa del legislatore, portatrice di valori liberali, per cui non si può punire oltre la necessità di prevenzione e di colpevolezza [1], nel tempo, si è tradotta nel declino del diritto penale, poiché alla rinuncia della pretesa punitiva statale c’è, come contraltare, una crescente domanda di pena. Se è ‹‹giusto›› punire nel rispetto del principio di legalità, il problema èindividuare il livello sanzionatorio più vicino a quello considerato «giusto» per i consociati; pertanto, le istituzioni agiscono bene, quando il legislatore avrà varato una buona legge; questo è possibile solo adottando una governance lontana dal modello impositivo e gerarchico, ma tesa all’interazione con gli attori non-statuali; il rischio, tuttavia, è quello di farsi condizionare dal populismo penale ammaliatrice, intorpidito dal livello di sfiducia dei cittadini nella giustizia italiana, lontana dal raggiungere l’efficienza di altri paesi europei[2].

In questo contesto, la problematica dell’espiazione intramuraria della pena è, da sempre, punto dolente dell’ordinamento italiano, sul quale pendono le condanne dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo, per violazione degli standard minimi di vivibilità [3]. Ciò ha prodotto una crisi della pena, che trova espressione nei cc.dd. ‹‹clementismi legislativi››: amnistie, indulti e depenalizzazioni. Ma è davvero possibile concepire una pena giusta e, nel contempo, umana? Le teorie sulla funzione della pena, sono il prodotto di una lenta evoluzione del diritto della morale/peccato a quello dello stato liberale/laico, che ha attraversato la filosofia kantiana, fondata sull’imperativo categorico, e il pensiero hegeliano, secondo cui la pena serve a compensare il male arrecato; l’attenzione, successivamente, si è rivolta verso l’autore del reato, fino alla moderna teoria dell’integrazione sociale, secondo cui la pena è finalizzata sia alla rieducazione (art. 27 Cost.) del reo che all’orientamento culturale dei consensi.

Il sistema italiano dalla pena, è contraddistinto dall’applicazione della sanzione intramuraria come extrema ratio e dal principio di umanità; quest’ultimo, valutato in termini assoluti, non potrebbe mai trovare applicazione, in quanto qualsiasi soglia di umanità prescelta all’interno delle case circondariali, non sarebbe esaustiva, poiché qualsiasi pena afflittiva opera una restrizione dell’inviolabilità della persona ed ha un’ineliminabile componente di inumanità [4]; insomma, «il carcere è il carcere e, per sfuggire alla sua logica, occorre il non carcere››[5]; nondimeno, è pur sempre il bagaglio di (maggiore o minore) offensività che conduce alla graduazione dell’afflitività; il carcere, invero, risolve problemi legati alla sicurezza e all’ordine pubblico, determinati da forme di criminalità particolarmente gravi (si pensi alla criminalità organizzata).

Nell’ultima Relazione al Parlamento del 2017 del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, è emerso che la maggioranza dei condannati finisce in carcere e l’Italia è ultima nell’UE nell’adozione di strumenti alternativi[6]. Questi dati vanno valutati alla luce dell’art. 3 CEDU, secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti››, la cui violazione, sebbene presupponga una volontà esplicita di infliggere sofferenza, può essere riscontrata come conseguenza di situazioni oggettive che oltrepassano il livello di afflizione fisiologicamente insito nell’esecuzione di pene, riscontrabile anche nelle disfunzioni determinate da sovraffollamento carcerario. L’Italia, purtroppo, presenta una forte disomogeneità del sistema detentivo riguardo strutture e spazi, soprattutto per i soggetti sottoposti al regime di sorveglianza speciale, perciò il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, ha chiesto al Parlamento di rendere il regime del carcere duro conforme ai principi di umanità e dignità.

Tali questioni (mai sopite) si sono riacutizzate, a seguito di una vicenda processuale che ha interessato Salvatore Riina, che ha proposto ricorso per Cassazione sul rigetto della richiesta di differimento dell’esecuzione della pena detentiva ex art. 146 c.p. per grave infermità (plurime patologie a vari organi vitali, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica). La soluzione della Corte di cassazione ha destato un forte clamore mediatico, ed è un chiaro esempio di filtraggio scorretto del contenuto di una decisione giudiziaria, dato in pasto al dilagante populismo in ambito penale. La Suprema Corte non ha disposto la scarcerazione del boss di “Cosa Nostra”, ma ha analizzato, il percorso logico-giuridico del Tribunale di sorveglianza, evidenziandone  lacune e contraddittorietà. Il rigetto si fondava sulla piena trattabilità delle patologie del detenuto in ambiente carcerario, per cui il rischio di insorgenza di eventi infausti era insito in qualsiasi struttura: lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia; ‹‹infine››, le esigenze di sicurezza ed incolumità pubblica, la notevole ed eccezionale pericolosità del Riina, pendevano a favore dell’inderogabilità dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione intramuraria.

Il giudice di legittimità, annullando con rinvio per nuovo esame, ha evidenziato che ‹‹in presenza di patologie implicanti un significativo scadimento delle condizioni generali e di salute del detenuto, il giudice di merito deve motivare […] adeguatamente››; esiste un ‹‹un diritto di morire dignitosamente›› che non può essere (im)motivato sull’esito infausto proprio di ogni ‹‹condizione di natura›› (lacuna della motivazione), ma va giustificato alla luce di una contingenza oggettiva sulle quali il giudice a quo (riferendosi proprio alla Casa di reclusione di Parma ove il medesimo è ristretto) ne aveva affermato le deficienze strutturali (contraddizione dalla motivazione); ‹‹ferma restando l’altissima pericolosità del detenuto Salvatore Riina e del suo indiscusso spessore criminale›› che, non solo smentisce le notizie di gossip mediatico sulla benevolenza irragionevole della Suprema Corte, ma funge da premessa logica per l’insoddisfazione circa la valutazione del giudice a quo, sulla pericolosità del detenuto, che va valutata ed argomentata alla luce di ‹‹precisi argomenti di fatto, rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza››. (Cass. Pen., Sez. 1, 22 marzo 2017, n. 27766).

In definitiva, se il principio personalistico è l’idea fondante dell’ordinamento italiano, il valore dell’umanità, ancella della solidarietà sociale (art. 2 Cost.), non può essere derogato al punto da vanificare il modello dello stato di diritto. Ogni decisione ‹‹in nome del popolo italiano››, è giusta solo nella misura in cui rispetti le regole di diritto, che valgono per tutti, senza discriminazioni di sorta; il bagaglio offensivo delle devianze criminologiche di ogni detenuto, non può tradursi in una miopia discriminante sul rigetto di richieste di parte che - lontane dal giudizio morale - non possono essere considerate pretestuose ma sono proprie di tutti i detenuti, soprattutto al cospetto di un bene giuridico inviolabile: la vita; per questi motivi, la Cassazione ha riconosciuto ad “ogni” detenuto, il diritto ad una motivazione esaustiva, circa l’assenza di differenziale positivo delle cure e dei trattamenti fruibili in stato di libertà, diversi e più efficaci, rispetto a quelli prestati in regime di detenzione.

[1] C.Roxin, Politica criminale e sistema del diritto penale. Saggi di teoria del reato (a cura di) S.Moccia, Napoli, 1998.

[2]  Fonte ISTAT. Politica e Istituzioni.2016.

[3] Si fa rifermento alla sentenza della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10 dove è statoaccertata la violazione dell’art. 3 CEDU a danno di sette ricorrenti e, contestualmente, si è ingiunto allo Stato italiano ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte; www.curia.europa.eu

[4] R. Bartoli, Il carcere come extrema ratio: una proposta concreta, inDir. Pen. Cont., n. 4 del 2016.

[5] G. Zagrebelsky, Postfazione, in L. Manconi - S. Anastasia -V. Calderone - F. Resta, Abolire il carcere, Milano, 2015.

[6] Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Relazione al Parlamento 2017, in www.garantenazionaleprivatiliberta.it

 

Ultima modifica il 05 Luglio 2017