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ASN: Il Tar accoglie sui titoli e sulle pubblicazioni
Pubblicato in La voce del diritto

Con sentenza n. 327 pubblicata in data 8 gennaio 2024, il Tar del Lazio, Sez. III Bis, ha accolto il ricorso patrocinato dall’Avv. Michele Bonetti e dallo studio Michele Bonetti e Santi Delia, ove si dibatteva del provvedimento di non idoneità per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di II fascia per il settore concorsuale 11/A1.

Il giudice di prime cure ha ritenuto fondati ben tre motivi del ricorso con cui veniva impugnato il giudizio collegiale e i giudizi individuali espressi dalla commissione, nonché le modalità ed i criteri di valutazione compiuti dalla stessa commissione.

La terza Sezione del Tribunale Amministrativo del Lazio ha ritenuto legittime le censure proposte nel ricorso. La sentenza in commento ha evidenziato la contraddittorietà del giudizio sul riconoscimento dei titoli, nonché l’erronea valutazione della commissione che non considera il criterio correttamente, limitandosi ad una valutazione che non tiene conto del conseguimento dei premi nella sua interezza. Oltretutto,  i criteri per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche individuati dal bando ministeriale (coerenza, apporto individuale, collocazione editoriale dei prodotti, qualità dei lavori anche a livello internazionale, continuità e rilevanza per il settore concorsuale) devono essere tutti oggetto di corretta e analitica valutazione da parte delle Commissioni, unitamente al possesso dei titoli e del positivo grado di impatto della produzione scientifica ai sensi dei c.d. indicatori.

Interessante è il giudizio espresso in sentenza sulla contestazione della valutazione delle pubblicazioni. Il ricorrente è stato ritenuto non idoneo alla abilitazione scientifica nazionale richiesta a causa dell’esame negativo delle pubblicazioni di cui all’art. 7 d.M. n. 120/2016. Risulta pertanto insufficiente la motivazione a supporto di tale giudizio compiuta dalla commissione. Si tratta infatti di un giudizio troppo sintetico nonché superficiale nel valutare correttamente le monografie presentate dal candidato.

La commissione è stata dunque censurata per avere disatteso il principio dell’obbligo di sufficiente valutazione analitica di titoli e pubblicazioni. Per giurisprudenza costante, infatti, nell’ambito delle procedure ASN, il vaglio delle pubblicazioni deve essere sufficientemente analitico. Nel caso in esame tale valutazione analitica è assente. Pertanto non può che derivare l’illegittimità dei provvedimenti impugnati.

Per tali motivi il TAR ha accolto il ricorso del nostro ricorrente, annullando gli atti impugnati e ordinando all’Amministrazione di rivalutare il candidato con una nuova commissione esaminatrice in diversa composizione.

 

La Corte di Appello di Salerno con decisione n. 645/2018 riformava la decisione di primo grado, del Tribunale Ordinario di Nocera Inferiore, che riconosceva il diritto del dipendente di una P.A. ad ottenere il risarcimento dei danni per aver prestato attività lavorativa (tramite la stipula prima di contratti a progetto e poi di contratti a tempo determinato) per oltre 12 anni.

In particolare il ricorrente rappresentava di aver lavorato per conto del Comune dal dicembre 2005 al 30 giugno 2008 con contratti a progetto e poi dal dicembre 2009 al 2012, con contratti a termine che erano stati prorogati addirittura dopo la pubblicazione della decisione del Giudice di Primo grado di condanna, ossia sino al 2017.

Difatti in primo grado al dipendente non solo veniva riconosciuta l’indennità risarcitoria ex art. art. 32, co. 5, della Legge n. 183/2010, nella misura di 7 mensilità, ma le differenze retributive e previdenziali, per tutto l’arco lavorativo.

La Corte di Appello di Salerno, attraverso una reinterpretazione dell’istruttoria riformava in toto la decisione di primo grado asserendo, addirittura, che ai fini della dichiarazione di illegittimità dei contratti a termine per l’abuso degli stessi, vi deve essere continuità temporale tra i contratti sottoscritti. Secondo i Giudici della sezione lavoro, della Corte di Appello di Salerno al fine del superamento dei 36 mesi vi è la necessità della continuità temporale tra i contratti sottoscritti al fine di accertare l’abuso da parte della P.A. dei contratti a termini.

Con la decisione n. 2877/2023 la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito chiaramente invece che per il superamento del limite dei 36 mesi non è richiesta la continuità temporale: “L’art. 5 comma 4 bis del d.lgs. 368/2001 si applica dunque nell’impiego pubblico privatizzato e nel periodo che qui rileva, con riferimento al limite all’assunzione con una successione di contratti a tempo determinato per un periodo superiore a 36 mesi.

Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 11374/2016, hanno inoltre chiarito che la stipula in successione tra loro di contratti a tempo determinato nel rispetto della disciplina di cui al d.lgs. 368 del 2001 e successive integrazioni, è legittima, dovendosi ritenere la normativa nazionale interna non in contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE atteso che l’ordinamento italiano e, in specie, l’art. 5 del d.lgs. 368/2001, come integrato dall’art. 1, commi 40 e 43, della legge n. 247 del 2007, impone di considerare tutti i contratti a termine stipulati tra le parti, a prescindere dai periodi di interruzione tra essi intercorrenti, inglobandoli nel calcolo della durata massima di 36 mesi”.

Per la Corte di Cassazione “Ai fini del superamento del limite di 36 mesi, non è dunque richiesta la continuità dei periodi, intesa come mancanza di interruzioni e dunque la Corte d’Appello, richiedendo un tale requisito ha errato, essendo sufficiente il superamento del limite temporale, almeno nel contesto della medesima vicenda di precariato”.

 

La Suprema Corte di Cassazione ha affermato tale principio che la Corte di Appello di Salerno, a cui la causa è stata rimessa per la quantificazione della detta indennità, aveva immotivatamente disatteso.

Il Consiglio di Stato, con un’articolata sentenza, ripercorrendo gli angusti spazi delle ipotesi di accesso alla revocazione, ha accolto il ricorso degli Avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, name founder di Bonetti & Delia, evitando il licenziamento di una ventina di Insegnanti Tecnico Pratici, ammessi a partecipare al concorso 2016 per effetto di provvedimenti cautelari.

Il “concorsone 2016”, come ricorderete, è stato il primo esclusivamente riservato agli insegnati abilitati in ottemperanza alla riforma della c.d. “Buona Scuola” appena entrata in vigore nel 2015.

Tale scelta del Legislatore aveva escluso ogni possibilità di partecipazione non solo a tutti i soggetti che avevano scelto di non abilitarsi ma, soprattutto, a coloro i quali, dopo aver ottenuto il titolo di accesso all’insegnamento, non avevano avuto alcuna possibilità di partecipare a percorsi di abilitazione in quanto lo Stato italiano non ne aveva creati.

In giudizio, nell’ambito delle migliaia di ammissioni che per quel concorso siamo riusciti ad ottenere, avevamo dimostrato l’illogicità e l’irragionevolezza di tale previsione normativa ove non interpretata nel senso di non consentire l’ammissione a chi, quell’abilitazione, non l’aveva potuta conseguire in ragione dell’inesistenza di canali abilitanti frattanto banditi.

“Il presupposto logico e giuridico-formale ineludibile perché risulti corretto l’assunto testé enunciato (e cioè la legittimità di un concorso ordinario riservato agli abilitati) è costituito dalla circostanza di fatto che, anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso, sia stato attivato e portato a compimento quantomeno un percorso abilitativo c.d. “ordinario” – ossia aperto all’accesso di chiunque sia munito del prescritto titolo di studio (e a prescindere dal fatto che costui abbia, o meno, svolto attività di insegnamento a titolo precario) – giacché, altrimenti, la selezione (almeno in riferimento alle classi di concorso per cui difetti tale implicito, ma indispensabile, presupposto fattuale) finirebbe con l’atteggiarsi concretamente come concorso riservato (in spregio non solo, e non tanto, del cit. art. 97, III comma, Cost.; ma anche, e soprattutto, della dichiarata ed effettivamente riscontrabile voluntas legis).

Per le classi di concorso per cui non sia stato effettivamente possibile conseguire l’abilitazione senza aver svolto un periodo di precariato (ossia quelle per le quali tale conseguimento sia stato concretamente possibile solo in esito a percorsi abilitanti c.d. “speciali”, cioè riservati a chi abbia svolto un determinato periodo di servizio come insegnante precario: quali, e.g., i c.d. P.A.S., cui è controverso tra le parti se la ricorrente avesse avuto, o meno, titolo per accedere) il concorso solo formalmente si qualificherebbe come pubblico, ma in realtà si atteggerebbe come riservato ai docenti precari che, soli, abbiano potuto conseguire l’abilitazione per la specifica classe di concorso.

Alla stregua di quanto sin qui detto, che – senza alcun bisogno di sollevare q.l.c. della normativa primaria di riferimento, giacché essa ben si presta ad essere interpretata nei sensi di cui appresso: non solo in senso costituzionalmente più orientato, ma altresì in senso più conforme alla dichiarata (ed effettivamente riscontrata) voluntas legis, che effettivamente è quella del superamento del precariato come canale unico o preferenziale di accesso all’insegnamento (risultato inattingibile ove non si consentisse mai la partecipazione al concorso anche a prescindere dall’aver svolto servizio precario) – è ben possibile coniugare il possesso dell’abilitazione, quale requisito ordinariamente necessario per partecipare al concorso di cui all’art. 400 cit., con l’esigenza esegetica (di cui si è già detto) di non “riservare” per alcuna classe di concorso la partecipazione ai soli precari (o ex precari), mediante una corretta applicazione anche al concorso di cui qui trattasi del successivo art. 402 del cit. D.Lgs. n. 297/1994. Detta norma primaria, direttamente correlata a quella che disciplina lo svolgimento del concorso di cui trattasi (ossia l’art. 400 del medesimo D.Lgs.), dispone che “fino al termine dell’ultimo anno dei corsi di studi universitari per il rilascio dei titoli previsti dagli articoli 3 e 4 della legge 19 novembre 1990, n. 341, ai fini dell’ammissione ai concorsi a posti e a cattedre di insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d’arte, è richiesto il possesso dei seguenti titoli di studio: a) diploma conseguito presso le scuole magistrali o presso gli istituti magistrali, od abilitazione valida, per i concorsi a posti di docente di scuola materna; b) diploma conseguito presso gli istituti magistrali per i concorsi a posti di docente elementare; c) laurea conformemente a quanto stabilito con decreto del Ministro della pubblica istruzione, od abilitazione valida per l’insegnamento della disciplina o gruppo di discipline cui il concorso si riferisce, per i concorsi a cattedre e a posti di insegnamento nelle scuole secondarie, tranne che per gli insegnamenti per i quali è sufficiente il diploma di istruzione secondaria superiore” (tra i quali ultimi rientra il caso degli I.T.P., di cui qui trattasi)”.

Nel caso dei ricorrenti, invece, il Consiglio di Stato, nella sentenza che si chiedeva di revocare, aveva “delibato la propria posizione come se si trattasse di soggetti appartenenti al genus dei docenti non abilitati anziché alla species, pur all’interno dello stesso genus, degli ITP, ai quali prima del concorso ordinario in discorso, sarebbe stato reso impossibile abilitarsi “.

Il Consiglio di Stato, dopo una complessa premessa sulle peculiarità del giudizio di revocazione, ha ritenuto esistente l’errore di fatto revocatorio, pronunciandosi inoltre anche sulla efficacia erga omnes della revocazione, accogliendo la nostra tesi e mutuando una precedente giurisprudenza dello stesso CdS. Nella sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato in merito alla questione predetta si evince dunque quanto segue “Ne consegue che l’annullamento di un atto amministrativo generale, quale la lex specialis di un bando di concorso, nella parte in cui ha un contenuto inscindibile, produce effetti erga omnes, in quanto si tratta di un atto sostanzialmente unitario, che non può sussistere per taluni e non esistere per altri. In altri termini, una sentenza di annullamento, che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa, acquista efficacia erga omnes nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto normativo, come i regolamenti, o di atti amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori, ma determinabili ex post, in relazione ai quali gli effetti dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri.”