Pubblicato in Altri diritti

Le unioni civili: tra stato dell’arte e “svolta” comunitaria

by Avv. Roberto Chiatto on02 Novembre 2014

Grande attualità sta rivestendo la tematica, divenuta ormai caldissima oltre che complessa, delle c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso. La questione ha ormai calamitato l’attenzione non solo della collettività sociale ma altresì della comunità scientifica che da un lato è rappresentata dai giudici di merito, attivi in trincea, e dall’altro ha visto l’esposizione, finalmente, dalla giurisprudenza di legittimità.

In prima linea, per restare sui fatti più recenti, il Tribunale di Grosseto (ordinanza del 9-9-2014) ha ordinato la trascrizione nei registri dello stato civile di un matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero. Decisione ribaltata poi dalla Corte d’appello di Firenze (19 settembre, notificata l’8 ottobre 2014) che ha annullato la pronuncia del giudice di primo grado sulla base di un autorevole precedente della Cassazione.Infatti, la Suprema Corte, nel 2012, si è trovata costretta ad affrontare il tema per la prima volta, dimostrando, ad avviso di chi scrive, una attenta cautela nel manovrare gli insidiosi strumenti della normativa vigente, sia a livello interno (Costituzione e legge ordinaria) sia a livello sovranazionale, e un ossequio all’orientamento della Consulta, offrendo inoltre una visione progressista ma pur sempre contenuta nel ruolo, non troppo creativo, che spetta al giudice.

Il dibattito che ha offerto lo spunto agli ermellini ruota intorno a due interrogativi di non poco conto. Da un lato la questione se due cittadini italiani dello stesso sesso siano titolari del diritto ad ottenere la trascrizione, nei registri di stato civile italiani, del loro matrimonio celebrato in un paese estero. Dall’altro lato la questione, probabilmente pregiudiziale, se sia o meno riconosciuto e garantito dalla Costituzione italiana il diritto delle coppie omosessuali contrarre matrimonio ai sensi degli artt. 2 e 29 della Costituzione.

Rispondere positivamente ad entrambi i requisiti condurrebbe alla conseguenza della validità ed efficacia nell’ordinamento italiano del matrimonio celebrato all’estero e, di conseguenza, alla sussistenza di un diritto ad ottenere la trascrizione per gli sposi e il dovere di curarla per l’ufficiale di stato civile italiano. Tale possibilità tuttavia è subordinata da un lato al duplice positivo riscontro del rispetto delle forme di celebrazione previste nello stato estero e dei requisiti sostanziali di stato e capacità delle persone previsti dalla legge italiana; dall’altro al requisito negativo dell’assenza di impedimenti c.d. dirimenti (artt. 87 e 88 c.c.), sussistendo i quali il matrimonio risulta invalido (nullo).

 

1-      Lo stato dell’arte.

Il codice civile italiano, disciplinando le invalidità matrimoniali, opera un generico riferimento ai vizi di nullità. Tuttavia, in dottrina si ammette l’esistenza di altre categorie tra cui, oltre alla irregolarità e alla annullabilità, spicca l’inesistenza dell’atto matrimoniale. L’atto nullo (es. matrimonio putativo o bigamia) è pur sempre esistente, producendo effetti seppur minimi. Quando invece manca anche la sola parvenza dell’atto matrimoniale, affermarne l’esistenza sarebbe una fictio iuris. Tra i casi di inesistenza la giurisprudenza annovera l’assenza di qualsivoglia manifestazione di consenso dei nubendi, la celebrazione del matrimonio in assenza dell’ufficiale di stato civile (il matrimonio infatti è una fattispecie complessa, i cui elementi perfezionativi sono la volontà dei coniugi e la dichiarazione del pubblico ufficiale) e, per ciò che ci interessa, l’identità di sesso.

La Cassazione del 2012 (sent. 4184) ha ricordato che il requisito della diversità di sesso non è normativamente richiesto e previsto, ma è desumibile implicitamente dalla lettura di alcune norme, quali l’art 107 c.c., l’art 143-bis c.c., e l’art 5 della legge sul divorzio. Ciò altro non è che il risultato della secolare storia e tradizione italiana dell’istituto del matrimonio fondato su basi naturalistiche, culturali e, poi, giuridiche.

Ecco che, allo stato attuale dell’arte, la diversità di sesso è un postulato della stessa identificazione giuridica dell’atto matrimoniale. La sua assenza quindi, comporta la non riconoscibilità di quell’atto come atto di matrimonio giuridicamente inteso e comporta non già l’invalidità del matrimonio bensì la sua inesistenza, conseguente alla mancata previsione di un atto matrimoniale tra persone “same sex”.

Da parte sua, la Corte costituzionale, nella celebre pronuncia n. 138 del 2010, ha respinto ogni questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 117, comma 1, della Carta fondamentale di una serie di norme codicistiche che non consentono il matrimonio di persone dello stesso sesso. E ciò per motivi diversi tra di loro ma tutti pienamente condivisibili.

Se è indubitabile che la Costituzione del ’48 abbia recepito una nozione di matrimonio contenuta nel codice del 1942, è altrettanto innegabile che istituti come quello del matrimonio non possano né debbano restare incastrati in schemi giuridico–sociali frutto dei tempi ma vadano riletti e reinterpretati alla luce dei mutamenti socio–culturali. Una, seppur fondamentale, attività ermeneutica evolutiva non può discostarsi tuttavia da una semplice, per quanto innovativa, rilettura in chiave moderna della norma (art 29 Cost.), arrivando a partorire una risultato creativo come la ammissibilità del matrimonio omosessuale.

Premesso questo, la Consulta non dubita che nel concetto di formazione sociale di cui all’art 2 Cost. rientrino anche le unioni omosessuali. Queste forme di comunità fondate su una, più o meno, stabile convivenza e comunanza di vita e di interessi, devono ricevere una tutela e un pieno riconoscimento dei diritti e dei doveri. Ma appare forzato il passaggio da questa considerazione a quella della piena equiparazione delle unioni civile all’istituto del matrimonio con un’avventata ermeneutica dell’art. 29 Cost. Si tratta di due piani diversi.

Una cosa infatti è garantire e riconoscere le unioni civili e i loro diritti, ed intervenire per eliminare ostacoli che, in relazione a specifiche situazioni, impediscono una eguaglianza di trattamento; altra cosa è pretendere di garantire tali diritti mediante una piena equiparazione con l’istituto giuridico del matrimonio. Con maggiore impegno esplicativo, la Corte costituzionale può certamente intervenire con lo strumento del controllo di ragionevolezza allo scopo di riequilibrare il trattamento delle coppie omosessuali rispetto alle coppie coniugate in relazione a determinate situazioni (e sono tanti gli interventi a favore del convivente more uxorio, sia esso uomo o donna). Ma appare assolutamente arbitraria la pretesa di paragonare in tutto e per tutto, compresa la trascrizione, le unioni de quibus al matrimonio, con la conseguenza di manipolare un istituto, stravolgendolo e piegandolo a realtà diverse da quelle in cui esso è nato e si è evoluto.

 

2-      L’ordine pubblico internazionale.

L’esclusione del vizio di invalidità evita delicate disquisizioni sul c.d. ordine pubblico internazionale. L’art. 16 della l. 218/1995 stabilisce che la legge straniera non è applicabile se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico e ciò per un’esigenza di protezione dei valori essenziali di un ordinamento rispetto ad un altro. Si tratta inoltre di un concetto caratterizzato dalla relatività – essendo suscettibile di mutamento spaziali e temporali – e dalla indeterminatezza – che atteggia l’ordine pubblico come clausola generale. La giurisprudenza (ex multis Cass. 13928/1999) ha definito l’ordine pubblico come “il complesso dei principi , ivi compresi quelli desumibili dalla Carta costituzionale, che formano il cardine della struttura economico – sociale della comunità nazionale in un dato momento storico” e “quelle regole inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali”.

Data la natura di clausola generale, id est di concetto elastico e generico, la sua applicazione viene rimessa all’apprezzamento (ai limiti dell’arbitrio) del giudice, libero di ravvisare o meno contrasti tra la norma straniera e il principio in questione.

Ora, si potrebbe in linea di principio ritenere che le norme di paesi esteri che prevedono e regolano i matrimoni di persone dello stesso sesso siano categoricamente inapplicabili in via diretta in Italia se si considera la diversità di sessi come un principio di ordine pubblico internazionale italiano.

Tuttavia, l’intensità del meccanismo dell’ordine pubblico internazionale potrebbe mutare a seconda del tipo di atto straniero (secondo l’opinione di studiosi del diritto internazionale privato). Così, a fronte di una contrarietà alla celebrazione in Italia di un matrimonio omosessuale, si potrebbe ammettere il riconoscimento degli effetti di tale vincolo celebrato all’estero. E ciò da un lato per la considerazione della differenza tra fare direttamente qualcosa e limitarsi a riconoscere quanto già fatto da altri (VITTA); dall’altro per una tutela dei c.d. diritti quesiti, evitando che vengano travolti rapporti e situazioni giuridiche già venuti ad esistenza, con pregiudizio per le parti e per l’uniformità e certezza del diritto.

Si tratta in ogni caso di ipotesi che presuppongono l’opzione della invalidità del matrimonio omosessuale, non presa in considerazione dalla recente giurisprudenza che oscilla tra l’inesistenza e l’inidoneità del vincolo.

 

3-      La svolta comunitaria.

A livello comunitario si è assistito invece ad una interpretazione più travolgente e coraggiosa. Se a livello nazionale, i supremi giudici si sono trovati costretti a sbattere contro gli scogli della tradizione e della normativa nazionale (anche costituzionale), a livello europeo non ci si è limitati a prendere atto della mutevolezza dei tempi e del sentimento socio culturale, ma si è pervenuti all’affermazione della piena emersione nel panorama dei diritti fondamentali di un nuovo e più ampio contenuto (anche definitorio) del matrimonio.

La corte europea ha interpretato in modo estensivo gli artt. 12 della Cedu e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza), e nella sentenza del 24 giugno 2010 (Schalk e Kolp contro Austria) è giunta alla conclusione che, dalla lettura combinata delle due disposizioni, non emerge la necessaria limitazione del diritto matrimoniale a persone di sesso opposto. Il ruolo di apriscatole è stato ricoperto dall’art. 9 della carta di Nizza del 2000, utilizzato per una lettura di ampio respiro anche dell’art 12 della Cedu.

La novella interpretativa europea si è tuttavia dovuta arenare, per il momento, ad una considerazione invalicabile: la riserva di legge nazionale. I diversi Stati membri presentano peculiarità in tema di famiglia e matrimonio, offrendo un panorama con significative diversità socio – culturali e giuridiche. Pertanto, imporre a livello comunitario il diritto a sposarsi in capo a persone dello stesso sesso non è accettabile. Evidenziando le espresse ed inequivoche indicazioni in tal senso provenienti dalle stesse norme appena citate, si è pertanto reputato opportuno lasciare ai singoli Stati membri l’adeguamento delle rispettive società alla nuova realtà. E questo per l’elementare, quanto condivisibile, considerazione che ogni paese ha la sua tradizione e solo gli organi istituzionali di quel paese hanno gli strumenti per valutare l’an, il quando e il quomodo dell’apertura alle nuove dinamiche internazionali, nella specie quelle concernenti il matrimonio.

Certamente però la giurisprudenza comunitaria ha attirato l’attenzione su un dato basilare. Considerate quali norme interposte, le due disposizioni devono comunque essere interpretate in modo conforme e, in qualche modo, eseguite. Per il loro tramite, deve ritenersi demolito quel dogma e quel “postulato implicito” della diversità di sessi ai fini della configurazione del matrimonio. E nel contempo si sono aperte le porte al riconoscimento del matrimonio omosessuale.

Ma non è tutto, perché l’uragano giurisprudenziale un altro risultato ha permesso di raggiungerlo. Ferma restando la intrascrivibilità del matrimonio omosessuale celebrato all’estero, le ragioni di un tale divieto non possono più farsi risiedere nella tradizionale inesistenza dell’atto matrimoniale per l’ordinamento interno – data l’acquisita ammissione della configurabilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso - ma nella semplice inidoneità dell’atto a produrre effetti nello stesso ordinamento.

 

4-      Conclusioni.

Al termine delle brevi considerazione ricordate, si registrano punti di arrivo che costituiscono al contempo punti di partenza, in un tortuoso cammino caratterizzato da lente ma incessanti conquiste.

I risultati conseguiti fino ad oggi sono frutto dell’attività della Consulta, avallata dalla Cassazione. E si tratta di approdi positivi. Le coppie omosessuali rientrano a pieno titolo tra le formazioni sociali di cui all’art 2 della Costituzione, condividono una comunione di vita, lato sensu familiare; esercitano i diritti loro riconosciuti sia in quanto singoli sia in quanto coppie libere; possono adire il giudice se ritengono di non ricevere, in relazione a specifiche situazioni, ingiustificatamente lo stesso trattamento riservato alle coppie coniugate e riceveranno, se del caso anche da parte della Consulta, la piena equiparazione alle coppie sposate se lo impongono la ragionevolezza e non discriminazione.

Le novità tuttavia si arrestano qui. Infatti, come detto, le coppie omosessuali non possono ancora contrarre matrimonio in Italia né ottenere la trascrizione del matrimonio validamente contratto all’estero.

Da questi “pilastri” occorre però ripartire affinché il Parlamento, sulla base delle leggi comunitarie, della recente sentenza della Corte di Giustizia Europea e delle indicazioni della Corte costituzionale, intervenga a regolamentare in modo chiaro, completo e adeguato tutti gli aspetti, personali e patrimoniali, delle c.d. unioni civili.

Ultima modifica il 02 Novembre 2014