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La Bancarotta prefallimentare come condizione obiettiva di punibilità - Nota a sentenza

by Avv. Giulio La Barbiera on17 Luglio 2017

Nota di commento a Corte di Cassazione, Sezione V penale − udienza 8 febbraio 2017 (Presidente Fumo – rel. De Marzo). 

La Corte di Cassazione, Sez. V Penale, ha statuito, con sentenza 8 febbraio 2017(Presidente Fumo – rel. De Marzo) che, nei reati di bancarotta prefallimentare, la sentenza dichiarativa di fallimento va considerata quale condizione obiettiva di punibilità (e non come elemento costitutivo del reato come sostenuto da autorevole dottrina (si esamini in merito:cfr C. Pedrazzi, (sub)  Art. 216, in Pedrazzi-Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito. Artt. 216-227, in Commentario Scialoja-BrancaLegge fallimentare, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1995, 1 s., adesso anche in C. Pedrazzi, Diritto penale, vol. IV, Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, 2003, 439 ss.; M. Romano (subArt. 44, in Id., Commentario sistematico del codice penale, I, 3a ed., Milano, 2004, 480; G. Marinucci- E. Dolcini, Manuale di diritto penaleParte generale, 4a ed., Milano, 2012, 376 s.), anche di recente riproposta (cfr G.G. Sandrelli, La riforma della legge fallimentare: i riflessi penali, in Cass. pen., 2006, 1297 ss., in particolare, 1299, che suggeriva «un ripensamento giurisprudenziale circa il possibile inquadramento della vicenda concorsuale nella categoria delle condizioni obiettive di punibilità (elementi esterni al fatto tipico) consentirebbe una soluzione più razionale»; F. D'Alessandro, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa del fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali?, in questa Rivista, 8 maggio 2013; F. Mucciarelli, La bancarotta distrattiva è reato d'evento?, in Dir. pen. proc., 2013, 437; Id., Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi?, in questa Rivista, 23 febbraio 2015, ora anche in Dir. pen. cont.-Riv. trim., 4/2015, 390)[1], per cui il momento consumativo, anche ai fini della competenza territoriale e del decorso della prescrizione, rimane fissato nel momento e nel luogo ove tale condizione si verifica (tempo e luogo della dichiarazione di fallimento)[2].

Tale principio giurisprudenziale, "forgiato" dalla Suprema Corte di Cassazione (Sez. Vº) e peraltro già annunciato in passato ( si legga a tal proposito:Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2014 (dep. 15 aprile 2015), n. 15613, Pres. Lombardi, Est. Savani e Pistorelli, in questa Rivista, 13 maggio 2015, con commento di C. Bray, La Cassazione sul caso Parmalat-Capitalia (e sul ruolo del fallimento nel delitto di bancarotta))[3], offre importanti spunti di riflessione, sia di matrice dottrinale che giurisprudenziale, che vanno necessariamente evidenziati.

In primo luogo, va osservato che La Suprema Corte di Cassazione è intervenuta sul tema anche con un’altra recentissima sentenza (la n. 13910/2017), arrivando anche in essa a definire la sentenza dichiarativa di fallimento nell’ambito della fattispecie di bancarotta prefallimentare(art. 216 L.fall) come condizione obiettiva di punibilità.

Il ragionamento certosino effettuato dagli Ermellini, in tale ultima sentenza, può applicarsi anche alla sentenza in commento in tale trattazione in quanto, tale ultima pronuncia funge, per oggetto e per materia, da "apripista" alla tematica in oggetto.

Ciò premesso, va evidenziato che la figura delittuosa in esame punisce l’imprenditore che, prima che intervenga la sentenza dichiarativa di fallimento, occulti e/o dissipi il patrimonio al fine di cagionare nocumento ai creditori. Tuttavia, la locuzione “ se è dichiarato fallito”, riferita all’imprenditore che abbia posto in essere le condotte (alternative) previste dalla norma incriminatrice di riferimento, ha destato dei dubbi interpretativi.

Invero, mentre la giurisprudenza assolutamente maggioritaria propendeva per la tesi secondo la quale il fallimento integrerebbe un elemento costitutivo del reato, nei termini che verranno di seguito esplicati, la dottrina lo considerava una mera condizione obiettiva di punibilità, ossia quell’evento futuro e incerto, estraneo al fatto tipico, dal quale dipende la punibilità dell’agente che con la sua condotta abbia realizzato il reato, già perfetto e dotato di offensività[4].

In altri termini: Gli Ermellini, aderendo, nella sentenza 13910/2017, all’opinione prevalente in dottrina, riconoscono che la dichiarazione di fallimento, limitatamente alle bancarotte pre-fallimentari, costituisce condizione obiettiva (estrinseca) di punibilità, ai sensi dell'art. 44 codice penale, ossia  trattasi di "un evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, che restringe l'area del penalmente illecito, riservando la sanzione penale solo ai casi in cui tale dichiarazione segua alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori".

Ciò rende "irrilevante l'accertamento del nesso eziologico e psicologico tra le condotte distrattive poste in essere e la successiva situazione di insolvenza che ha determinato la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento; quest’ultima, infatti, non rappresenta elemento costitutivo del reato di bancarotta pre-fallimentare, né l'insolvenza costituisce l'evento della distrazione".

Nondimeno "rispetto ad una fattispecie incriminatrice di pericolo concreto (con necessaria idoneità delle condotte a determinare un probabile effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale dei creditori, anche nelle omogenee espressioni dell’opacità informativa e del trattamento discriminatorio delle ragioni dei creditori) non sembra possa disconoscersi che per apprezzarne l’effettivo disvalore giuridico quali crimini fallimentari dei contegni astrattamente tipizzati un perspicuo significato rivelatorio sia sovente ricollegato al loro realizzarsi nel contesto della crisi, dello stato di insolvenza o del dissesto".[5]

Esemplificando: La Suprema Corte di Cassazione fa proprie, nell’affermare che la sentenza dichiarativa di fallimento con riguardo all’ambito della fattispecie di bancarotta prefallimentare costituisca condizione obiettiva di punibilità ,le risultanze della sentenza sul caso Parmalat che sono in netta contrapposizione a quelle statuite nella sentenza Corvetta.

Onde fornire , dunque, una prospettazione esaustiva delle risultanze raggiunte dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza Parmalat, risulta necessario premettere quelle oppositive tracciate nella sentenza Corvetta.(Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502, Pres. Zecca, Est. Demarchi Albengo, Imp. Corvetta e a.).

Scendendo nel dettaglio, il caso esaminato nella sentenza Corvetta,concerne varie condotte asseritamente distrattive compiute dagli imputati sul patrimonio della società calcistica U.S. Ravenna Calcio s.r.l., dichiarata fallita nell'aprile 2001. Più in particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che tre componenti della famiglia Corvetta - nella loro qualità di amministratori di fatto o di diritto - avessero distratto, dal 1996 sino al marzo 1999, rilevanti somme di denaro dal patrimonio della società a favore della società di famiglia controllante Misano s.p.a., che si trovava in una situazione di grave difficoltà finanziaria. La Ravenna Calcio era stata quindi sottoposta, tra il marzo e il novembre 1999, ad amministrazione giudiziale, ed era stata quindi alienata ad altra società, per essere poi dichiarata fallita nel 2001.

La Corte d'Appello aveva motivato la condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta societaria ex art. 223 co. 1 in relazione all'art. 216 co. 1 n. 1 l. fall. affermando, in conformità al consolidato indirizzo della Cassazione, la non necessarietà di un'indagine sul nesso causale tra le condotte distrattive compiute dagli imputati e la successiva dichiarazione di fallimento, intervenuta a più di due anni di distanza dalla cessazione di ogni incarico sociale degli imputati.

Ad evitare il rischio di un regresso all'infinito della responsabilità penale rispetto al fallimento, la Corte territoriale aveva peraltro sottolineato come la concreta messa in pericolo dell'interesse tutelato dalla norma penale (la garanzia dei creditori rappresentata dal patrimonio del debitore) rappresenti un requisito implicito del delitto di bancarotta, e come - pertanto - la condotta penalmente rilevante a) debba causare un obiettivo e ingiustificato depauperamento del patrimonio  dell'impresa, e b) debba essere compiuta in un cotesto di difficoltà economica della stessa, sì da far prefigurare come sbocco possibile il suo dissesto: ricorso in cassazione, riproponendo - tra l'altro - le eccezioni di illegittimità costituzionale dell'art. 216 l. fall. elementi, l'uno e l'altro, che la Corte aveva ritenuto di ravvisare nelle condotte compiute dagli imputati.

Quanto poi ai profili soggettivi, la Corte territoriale aveva coerentemente affermato che il dolo della bancarotta - pur non estendendosi alla dichiarazione di fallimento in quanto tale - deve tuttavia comprendere la consapevolezza del danno, o almeno del possibile danno della condotta alle ragioni dei creditori: requisito anch'esso ritenuto sussistente nel caso di specie.

 Avverso tale sentenza gli imputati avevano proposto  (in quanto richiamato dal primo comma dell'art. 223) per violazione degli artt. 3, 25 co. 2 e 27 co. 1 e 3 Cost. già ritenute irrilevanti o infondate dai giudici di merito, e denunciando su questa base l'errore di diritto da questi ultimi compiuto - in conformità peraltro con la giurisprudenza consolidata della Cassazione - nella misura in cui essi avevano ritenuto irrilevante, ai fini del delitto contestato, la prova del nesso causale tra condotta e dichiarazione di fallimento, così come la prova del dolo rispetto a tale dichiarazione.

Ad avviso delle difese, in effetti, tali requisiti facevano difetto nel caso di specie, non solo perché gli imputati non avrebbero avuto consapevolezza del potenziale danno arrecato alle ragioni creditorie dai finanziamenti della capogruppo dagli stessi disposti, ma soprattutto perché il nesso causale tra tali condotte - compiute tutte prima che la società fosse sottoposta ad amministrazione giudiziale, nel 1999 - e il successivo fallimento della U.S. Ravenna Calcio, dichiarato nel 2001 dopo che la società era stata nuovamente venduta a privati, sarebbe stato interrotto ai sensi dell'art. 41 co. 2 c.p. nella fase intermedia dell'amministrazione giudiziale, durante la quale non era stato rilevato alcun dissesto e al termine della quale la società sportiva - lungi dall'essere dichiarata fallita - era stata alienata dietro sostanzioso corrispettivo ad altra società, alle condotte distrattive dei cui amministratori unicamente sarebbe stato imputabile il successivo fallimento.

Tutto quanto ciò premesso e dopo avere riaffermato la natura distrattiva dei finanziamenti compiuti dagli imputati a favore della capogruppo, la Cassazione affronta di petto la censura dei ricorrenti relativa al nodo del nesso causale tra detta condotta e la successiva dichiarazione di fallimento, ricostruendo anzitutto i termini della vexata quaestio relativa alla funzione di tale elemento nell'economia della fattispecie di bancarotta fraudolenta.

Contrariamente a una tesi largamente diffusa in dottrina, che individua in taleelemento una mera condizione obiettiva di punibilità, il collegio ribadisce anzitutto la propria adesione all'orientamento - costantemente ribadito dalla giurisprudenza della S.C. a partire almeno da una remota sentenza delle Sezioni Unite del 1958 - che considera il fallimento come elemento costitutivo del delitto di bancarotta.

Tuttavia la giurisprudenza consolidata esclude, al tempo stesso, che il fallimento sia inquadrabile quale "evento" del delitto de quo, e debba pertanto porsi in rapporto di derivazione causale rispetto alla condotta, ovvero debba essere coperto dal dolo.

Tali affermazioni, tralatiziamente ribadite a partire dalle Sezioni Unite del 1958, meritano oggi, ad avviso del collegio, di essere sottoposte a revisione critica, nel contesto di un'interpretazione dell'art. 216 l. fall. conforme ai principi costituzionali di personalità della responsabilità penale e di colpevolezza, siccome declinati dal giudice delle leggi a partire dalla storica sentenza n 364/1998.

E il caso di specie si presta in speciale misura, afferma la S.C., a una tale revisione, essendo riferito a condotte poste in essere anni prima della dichiarazione di fallimento della società, intervenuta per di più quando la gestione della stessa era da oltre due anni affidata a soggetti - pubblici e privati - diversi dagli imputati.

 Il punto di partenza della revisione critica intrapresa del collegio è, dunque, che la disposizione di cui all'art. 44 c.p. - il cui effetto pratico è quello di sottrarre le "condizioni" dalle quali la legge fa dipendere la punibilità del reato alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva di cui ai precedenti artt. 40-43 c.p. - costituisce una norma eccezionale rispetto al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, il cui ambito di operatività deve essere confinato a quegli accadimenti che non hanno alcuna relazione con l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice, e che esprimono piuttosto l'opportunità della pena o del processo in relazione a fatti già compiutamente offensivi di tale interesse.

Ciò non potrebbe dirsi in relazione al fallimento, che è invece l'accadimento con il quale quale il disvalore di condotte in sé neutre - ed anzi lecite, in quanto espressive della libertà dell'imprenditore di gestire i propri beni - si cristallizza a danno dei creditori rimasti insoddisfatti.

Anche la dichiarazione di fallimento dovrà, allora, ritenersi soggetta alle regole generali di cui agli artt. 40-43 c.p., proprio in quanto elemento costitutivo del reato - e non mera condizione obiettiva di punibilità ai sensi dell'art. 44 c.p. .

 Dal punto di vista soggettivo, occorrerà allora - giusta il disposto degli artt. 42 e 43 c.p. - che "il fallimento - o meglio il suo presupposto di fatto, cioè lo stato di insolvenza [debba] essere dall'agente preveduto e voluto, quanto meno a titolo di dolo eventuale.

Accertamento, questo, al quale del resto già alludono numerose pronunce di legittimità, nella misura in cui, nella bancarotta per distrazione, non si accontentano della volontà del compimento della condotta, ma richiedono altresì la consapevolezza di sottrarre mediante la medesima il bene alla esecuzione concorsuale, ciò che a sua volta presuppone almeno una consapevolezza del possibile instaurarsi della procedura stessa; ovvero comunque richiedono la consapevolezza, in capo all'imprenditore, dell'effetto di depauperamento del patrimonio sociale a danno della compagine dei creditori prodotto dalla condotta distruttiva.

A questo orientamento si è in effetti allineata anche la sentenza di merito impugnata, che sotto questo profilo si sottrae alle censure dei ricorrenti, dal momento che - pur muovendo da premesse in diritto errate - in definitiva ha egualmente fornito adeguata motivazione della sussistenza di un dolo almeno eventuale degli imputati rispetto al possibile verificarsi di un dissesto (e del conseguente fallimento) della società.

 Diverso, invece, il discorso sul nesso causale, che ai sensi dell'art. 40 dovrà necessariamente sussistere tra la condotta distrattiva e il fallimento, posto che - come sottolinea il collegio - tale norma esprime un principio generale che non soffre di alcuna eccezione nel nostro ordinamento.

Una volta escluso insomma - come fa la giurisprudenza di legittimità da oltre cinquant'anni - che il fallimento sia condizione obiettiva di punibilità, e una volta affermato che tale accadimento sia all'opposto elemento costitutivo del delitto di bancarotta, non si vede come esso possa sottrarsi alla regola secondo cui esso può essere imputato all'agente soltanto in quanto da lui cagionato mediante la condotta descritta dalla norma incriminatrice.

La S.C. conclude allora che "la bancarotta è un reato di evento, e tale evento consiste nella insolvenza della società, che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento" (§ 25 sub c); e come tale esso evento dovrà porsi in concreto quale conseguenza della condotta rimproverata all'agente ai sensi dell'art. 40 c.p.

La Corte d'Appello ha, allora, errato nel non compiere alcun accertamento sul nesso causale tra le condotte ascritte agli imputati e il successivo dissesto che condusse in concreto, anni più tardi, alla dichiarazione di fallimento, e in particolare a non compiere una attenta verifica sulla possibile interruzione del nesso causale determinato, in ipotesi, dall'amministrazione giudiziale della società e dalla sua successiva gestione privata nel periodo immediatamente antecedente il fallimento, pure caratterizzato da atti chiaramente depauperativi.

Di qui l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente a tale profilo.

 Una rondine non fa primavera, come dicevano i vecchi saggi: solo l'esame della giurisprudenza successiva potrà dirci se il clamoroso revirement qui compiuto rispetto a cinquant'anni anni e più di tradizione giurisprudenziale sarà destinato a consolidarsi.

Molti, del resto, i profili problematici aperti dalla soluzione ora adottata dalla quinta sezione, che la sentenza affronta con argomentazioni che le dimensioni di questa scheda non consentono neppure di ripercorrere, e che dovranno invece essere oggetto di più meditati commenti, a cominciare dalle difficoltà di trasferire la logica dei principi di diritto qui enucleati alla fattispecie contigua di bancarotta documentale di cui all'art. 216 co. 1 n. 2 l. fall., sino al nodo di fondo dell'esatta individuazione dell'evento del reato (la dichiarazione di fallimento ovvero l'evento implicito del dissesto dell'impresa, che ne costituisce il presupposto?), con tutte le delicate implicazioni pratiche di tale quesito

Un dato è, però, certo: questa sentenza ha il merito di rimettere in discussione un orientamento granitico ma del tutto incoerente sul piano sistematico, nella misura in cui, da un lato, nega alla dichiarazione di fallimento natura di condizione obiettiva di punibilità - già sostenuta da Delitala e, sulla sua scia, da molta autorevole parte della dottrina contemporanea - riconoscendone la funzione di elemento costitutivo del reato; e, dall'altro, la sottrae alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva di cui agli artt. 40-43 c.p., senza giustificare in maniera plausibile il fondamento normativo di questa deroga.

Auctoritas non facit legem, verrebbe da dire ribaltando il noto adagio hobbesiano: in un ordinamento costituzionale, la legge la fa il legislatore, non l'autorità dei precedenti. E in ciò ha perfettamente ragione questa magari discutibile ma coraggiosa sentenza: se, come prevedibile e forse auspicabile, la Cassazione vorrà in futuro riaffermare l'irrilevanza dell'accertamento del nesso causale e del dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento - in quanto accadimento spesso determinato da fattori non dominati è dominabili dall'imprenditore -, lo dovrà fare ora con argomenti più solidi di quelli tralatizi, e soprattutto più attenti alla compatibilità con la logica del sistema e con i dati normativi (a cominciare da quelli del codice penale, applicabili anche alla materia speciale del diritto penale fallimentare). Dati normativi ai quali il giudice - anche quello supremo - è pur sempre soggetto ai sensi dell'art. 101 Cost.

In conclusione, a parere degli Ermellini:"Nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell'agente, e deve altresì essere soggetto dall'elemento soggettivo del dolo": questo il principio di diritto enucleato dalla quinta sezione della Cassazione nel § 44 della sentenza, che si pone in consapevole contrasto con l'orientamento ampiamente consolidato della S.C., che all'opposto nega la necessità della prova del nesso causale e del dolo rispetto alla dichiarazione di fallimento, la quale costituirebbe sì un elemento costitutivo del delitto di bancarotta, ma non un "evento" in senso tecnico".[6]

Evidenziati tali profili e ritornando alla tesi della sentenza dichiarativa di fallimento qualificabile, nell’ambito della fattispecie di bancarotta prefallimentare, quale condizione obiettiva di punibilità, vanno evidenziati i fatti posti a fondamento della sentenza e poi le relative conclusioni che vanno implementate come commento all’argomento in oggetto.

Scendendo nel dettaglio, il caso di specie oggetto della pronuncia in commento riguarda un filone di indagini sorto dalla nota vicenda del crac della società Parmalat e delle numerose altre società ad essa correlate e riconducibili all'imprenditore Tanzi.

In particolare, i giudici del merito avevano asserito che gli allora vertici del gruppo Capitalia - tra i quali Geronzi e Arpe -, al fine di realizzare interessi economici della banca, avessero consapevolmente collaborato alla (e in sostanza istigato la) ideazione ed esecuzione da parte di Tanzi di un'attività distrattiva dal patrimonio di Parmalat di fondi (apparentemente) erogati alla società emiliana attraverso un prestito bridge di 50 milioni di euro.

La Corte di merito aveva sussunto i fatti della complessa vicenda finanziaria nelle fattispecie di:

(i) bancarotta fraudolenta patrimoniale, quanto alla condotta di distrazione della provvista fornita da Banca di Roma (banca facente parte del gruppo Capitalia) a Parmalat (erogazione in realtà utilizzata per finanziare altre società del gruppo Parmalat affinché provvedessero all'acquisto dell'azienda Ciappazzi, a sua volta debitrice della banca);

(ii) bancarotta fraudolenta impropria ai sensi dell'art. 223 co. 2, n. 2, l. fall.,consistendo le operazioni dolose produttive del fallimento del gruppo Parmalat nell'aver prorogato il suddetto prestito, peraltro a condizioni ancora più onerose;

(iii) bancarotta fraudolenta impropria da reato societario in riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2632 c.c., quanto alla operazione di capitalizzazione di Parmatour.

 In via preliminare, va segnalato che il collegio non accoglie le eccezioni di illegittimità costituzionale dell'art. 223 l. fall. sollevate da uno dei ricorrenti.

E' innanzitutto dichiarata infondata la presunta violazione dell'art. 25 Cost. La S.C. ritiene infatti che il legislatore abbia ricostruito la fattispecie di cui all'art. 223 co. 2, n. 2, l. fall. ricorrendo ad indici terminologici sufficientemente determinati. Invero, il riferimento alle "operazioni dolose" deve essere letto in stretta correlazione alle funzioni proprie dei soggetti attivi tipizzati dalla norma incriminatrice.

In secondo luogo, è superato altresì l'eventuale contrasto tra l'art. 27 c. 3 Cost. e la previsione in misura fissa di dieci anni della pena accessoria - di cui al combinato disposto tra ult. co. dell'art. 216 e ult. co. dell'art. 223 l. fall. - alla luce di quanto già affermato nella sentenza n. 134/2012 della Corte costituzionale (pubblicata, in questa Rivista, con nota di Varrone, Sui limiti del sindacato di costituzionalità delle previsioni sanzionatorie, in un caso concernente le pene accessorie interdittive per il reato di bancarotta fraudolenta, 1 giugno 2012). Quest'ultima, infatti, nel risolvere la medesima questione, statuisce che trattasi di materia riservata alla discrezionalità del legislatore e per sindacare la quale la Consulta dovrebbe ricorrere ad una pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato, e quindi contraria ai principi che governano il potere di intervento del Giudice delle leggi (sulla questione, Chiaraviglio, Quale la durata delle pene accessorie per il bancarottiere fraudolento?, in questa Rivista, 18 febbraio 2015).

 Dopo aver fugato i dubbi sulle pregiudiziali di costituzionalità, la S.C. affronta funditus le censure di carattere sostanziale comuni a tutti i ricorrenti e propone soluzioni ampiamente argomentate in relazione a decisivi problemi sull'applicazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta, sia propria che impropria.

Ne deriva, dunque, una sentenza particolarmente interessante per lo studioso del diritto penale sostanziale.

Come già anticipato in apertura, la principale questione affrontata riguarda la vexata quaestio circa il ruolo che assume il fallimento (rectius la sentenza dichiarativa di fallimento) nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta.

I ricorrenti infatti, affidando per lo più le loro impugnazioni alla riproposizione degli argomenti elaborati dalla sentenza Corvetta (Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, cit.), sostenevano che il fallimento deve essere qualificato come evento del reato e, di conseguenza, affermavano la necessità della prova del nesso causale e del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento.

Di tutta risposta la Corte, prima di confrontarsi con le argomentazioni fondanti la pronuncia Corvetta, opera una dettagliata ricostruzione dell'orientamento tradizionale sviluppatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità.

Innanzi tutto si sottolinea come, pur qualificando con accezioni diverse nel tempo la sentenza dichiarativa di fallimento - condizione di esistenza del reato (Cass., Sez. un., 25 gennaio 1958, n. 2, Mezzo); elemento indispensabile per attribuire rilevanza penale a condotte altrimenti lecite (ex multis, Cass., Sez. I 16 novembre 2000, n. 4356/2001, Agostini); elemento costitutivo del reato (Cass., Sez. V, 12 ottobre 2004, Rossi e altro); elemento costitutivo del reato in senso improprio (Cass., Sez. V, 7 maggio 2014, Daccò) - la S.C. ha sempre ritenuto che essa costituisca un elemento costitutivo del reato, senza per ciò identificarla come evento in senso tecnico.

Tanto è vero che, in giurisprudenza, non ha neanche mai assunto consistenza la riconducibilità di tale elemento nella distinta categoria delle condizioni obiettive di punibilità, tesi invece ampiamente sostenuta in dottrina.

In secondo luogo, si evidenzia come la giurisprudenza di legittimità sia altrettanto ferma nel considerare la dichiarazione di fallimento svincolata dal dolo necessario per la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta.

 Tanto premesso circa l'univoca direzione assunta dalla Cassazione, la pronuncia in oggetto si pone in diretta correlazione dialogica con la sentenza Corvetta - unico arresto ad aver prospettato una diversa impostazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta - e ne contesta, punto per punto, il percorso argomentativo (per una disamina del confronto tra la precedente sentenza Cass., Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi e a. e la pronuncia Corvetta v. Balato, Sentenze Parmalat vs Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in questa Rivista, 16 febbraio 2015).

a) La prima di tali obiezioni apostrofa quale sillogismo fallace il principio di diritto, elaborato dalla sentenza Corvetta, secondo cui il fallimento, in ottemperanza agli artt. 40 e 41 c.p., deve essere legato alla condotta in quanto evento del reato.

"Infatti, la premessa minore ('il fallimento costituisce "evento" del reato di bancarotta') è a ben vedere tautologica, non essendo offerta alcuna dimostrazione del perché la dichiarazione giudiziale di insolvenza sia da ritenere "evento" (termine medio del sillogismo) della bancarotta, ergo soggetto alla regola enunciata dalla premessa maggiore ('l'"evento" del reato è conseguenza della condotta secondo il nesso eziologico ex artt. 40 e 41 c.p.'), così da giungere alla conclusione per cui tra condotta di bancarotta e fallimento debba sussistere il nesso eziologico ex artt. 40 e 41 c.p." (§ 6.5.1).

b) Un'ulteriore critica si fonda sul dato letterale.

Invero, mentre l'art. 223, co. 2, nn. 1 e 2, l. fall. (al pari degli artt. 217 n. 4 e 224 n. 2) esplicita la necessaria sussistenza del nesso eziologico tra le condotte di bancarotta e il fallimento (ovvero il dissesto) attraverso il ricorso all'uso del verbo "cagionare", per converso nell'art. 216 co. 1 l. fall. non si scorge alcun riferimento all'esigenza di una dipendenza causale tra condotta e provvedimento giurisdizionale.

Peraltro, secondo la sentenza Corvetta, la conformazione causale delle ipotesi previste dal co. 2 dell'art. 223 l. fall. sarebbe da estendere, in via interpretativa, anche alle altre fattispecie di bancarotta. Ma una tale tesi, a parere della Corte, è meramente assertiva e non giustificata dalla lettera della norma.

c) Inoltre, sostiene la S.C., l'impostazione della sentenza Corvetta si fonderebbe su un'aporia terminologica consistente nel considerare alla stregua di sinonimi la 'sentenza dichiarativa di fallimento', il 'fallimento' e il 'dissesto'.

Invece, tali distinzioni terminologiche spiegano una significativa scelta del legislatore: mentre le prime due espressioni si riferiscono al provvedimento giurisdizionale e alla situazione sostanziale che ne costituisce il presupposto "che non ammette alternativa tra essere e non essere", al contrario il 'dissesto' è un "dato quantitativo, graduabile, suscettibile di essere cagionato sia nell'an che nel quantum".

d) Tale aporia terminologica sarebbe alla base dell'errore compiuto dalla sentenza Corvetta nel considerare alla stregua di nozioni fungibili il "dissesto" e la "dichiarazione di fallimento".

Al contrario, richiamando l'insegnamento delle Sezioni unite (Cass., Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli), si evidenzia che "nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale".

e) Per di più la S.C. rileva che, qualificando il dissesto quale evento del reato, si arriverebbe al risultato paradossale di non includere nell'ambito di applicazione dell'art. 216 l. fall. quei comportamenti (diffusi e pericolosi) che, pur non contribuendo a causare il dissesto, tuttavia ledono gli interessi dei creditori prima dell'intervento della dichiarazione di fallimento.

f) Infine, si sottolinea altresì che considerare la dichiarazione giudiziale di insolvenza alla stregua dell'evento del reato non è concepibile rispetto alla fattispecie di bancarotta prefallimentare documentale.

A nulla varrebbero i tentativi della sentenza Corvetta di giustificare l'aporia ricorrendo all'individuazione di una diversa funzione da attribuirsi alla dichiarazione nella bancarotta documentale. Infatti, "a confutazione (...) è agevole osservare come (...) la forma sintattica adottata nell'ancipite previsione normativa - nella quale è posta in comune (...) l'espressione 'se è dichiarato fallito' - non consenta di differenziare le due ipotesi criminose dal punto di vista della struttura del reato".

 Non è tutto: la Corte non si limita a ricostruire l'orientamento tradizionale, o a precisare i motivi per cui non condivide l'indirizzo contrario, ma tenta altresì di fornire un ulteriore apporto giustificativo della correttezza dell'orientamento cui mostra di aderire.

Sul punto, visto il rilievo assunto rispetto alla soluzione prospettata, vale la pena richiamare le parole della Corte:

"va (...) chiarito come il genuino significato dell'orientamento giurisprudenziale che si è visto largamente maggioritario sia quello per cui, se la dichiarazione di fallimento attribuisce rilevanza penale alle condotte contemplate dall'art. 216 (essendo al pari di tutti gli elementi della fattispecie uno dei presupposti di tale rilevanza), non per questo può essergli attribuita anche un'efficacia - per di più retrospettiva - qualificante dei fatti di bancarotta sul piano dell'illiceità o addirittura della tipicità.

Deve insomma ribadirsi - come da tempo affermato dalla più autorevole dottrina - che le condotte incriminate non sono prive di autonomo disvalore, anche prima della declaratoria giudiziale del fallimento.

Conclusione questa che è suggerita dalla loro stessa configurazione normativa. Infatti, termini come 'distrarre', 'dissipare', 'occultare', 'distruggere', 'dissimulare', o locuzioni come 'esporre passività inesistenti' (...) appaiono impregnati di una evidente connotazione negativa, rivelando l'intenzione del legislatore di selezionare per l'incriminazione soltanto comportamenti che, in quanto evocativi di una anomala gestione dell'impresa, risultino intrinsecamente idonei a mettere in pericolo l'interesse dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. violando il relativo dovere gravante sull'imprenditore. (...)

In definitiva il disvalore intrinseco delle condotte tipizzate deve essere ricostruito in ragione della tutela penale del diritto di credito, che non è sintonizzato sul mero inadempimento, bensì sulla responsabilità patrimoniale del debitore.

Ed è in tale prospettiva che può dunque ritenersi che il fallimento non determini in maniera autonoma l'offesa, ma, per l'appunto, la renda attuale e meritevole di pena.

Per converso l'esposizione a pericolo dell'interesse dei creditori diviene connotato di tipicità della condotta proprio in ragione della funzione che la dichiarazione di fallimento assume nella struttura della fattispecie. 

L'esito concorsuale va dunque inteso non quale progressione dell'offesa, bensì come prospettiva nella quale deve essere valutata l'effettiva offensività della condotta.

In altri termini il fallimento non trasforma la bancarotta in reato di danno, giacché lo stesso non costituisce oggetto di rimprovero e non consegue necessariamente alla consumazione delle condotte incriminate, le quali vengono punite per il solo fatto di aver esposto a pericolo l'integrità della garanzia patrimoniale, indipendentemente da quello che sarà poi l'effettivo esito della procedura concorsuale, del quale, infatti, la norma incriminatrice si disinteressa.            E conferma della correttezza di tale impostazione può trarsi dall'art. 219, che in funzione aggravante o attenuante considera il danno patrimoniale, il quale, ancorché misurato al tempo del fallimento, è solo quello che consegue ai fatti di bancarotta.

Non di meno, a dimostrazione della correttezza dell'impostazione accolta, può evocarsi la disciplina sull'esercizio dell'azione penale dettata dall'art. 238 legge fall., che rende evidente come il disvalore delle condotte incriminate persista alla declaratoria del fallimento.

In tal senso la selezione dei comportamenti da considerare conformi al tipo descritto dal legislatore deve avvenire già sul piano oggettivo - e non solo su quello soggettivo - attraverso la verifica della idoneità degli stessi a pregiudicare l'integrità della garanzia patrimoniale; mentre sotto il profilo soggettivo tale idoneità deve essere quantomeno rappresentabile da parte dell'agente, anche quando egli non agisca con l'obiettivo di recare pregiudizio ai creditori, finalità invero non richiesta per la sussistenza del reato di bancarotta patrimoniale quantomeno con riguardo alla fattispecie descritta nella prima parte dell'art. 216 l. fall." (§ 6.6.3 - 6.6.5).

 La questione appena esaminata costituisce il presupposto logico necessario per affrontare la seconda pregiudiziale sostanziale avverso il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

I ricorrenti, infatti, lamentavano che la sentenza impugnata avrebbe errato nell'escludere che la consapevolezza del dissesto sia elemento costitutivo del dolo dell'extraneus concorrente in tale delitto.

L'assunto è, ancora una volta, affermato in forza della tesi sostenuta dalla sentenza Corvetta secondo la quale, essendo il dissesto un elemento costitutivo del reato, esso non può che ritenersi soggetto alle regole generali di cui agli artt. 42-43 c.p.

Tuttavia, come visto, ad avviso del collegio occorre sia distinguere il concetto di "dissesto" dal provvedimento giurisdizionale che certifica lo stato d'insolvenza, sia considerare che la corretta funzione della dichiarazione di fallimento è quella di "elemento qualificante dell'offesa propria del reato".

Ne consegue che il dissesto non costituisce elemento oggetto del dolo del reato di bancarotta fraudolenta, tantomeno - secondo le regole generali sul concorso di persona - può rientrare nel fuoco del dolo del concorrente esterno.

In definitiva, "il dolo dell'extraneus si risolve nella consapevolezza di concorrere nella sottrazione dei beni alla funzione di garanzia delle ragioni dei creditori per scopi diversi da quelli inerenti all'attività di impresa, immediatamente percepibile dal concorrente esterno, come produttivo del pericolo per l'effettività di tale garanzia nell'eventualità di una procedura concorsuale, a prescindere dalla conoscenza della condizione di insolvenza".

 Sempre a proposito del profilo soggettivo, la S.C. tiene a sottolineare che escludere il dissesto dall'oggetto del dolo non significa affermare la responsabilità del concorrente esterno a titolo di mera responsabilità oggettiva, dal momento che la pericolosità della condotta distrattiva cui il concorrente contribuisce ben può apparire da fattori diversi quali, ad esempio, la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide sul patrimonio sociale ai danni dei creditori.

 Ulteriore quaestio iuris su cui si sofferma la sentenza in oggetto è quella relativa al concorso tra la bancarotta fraudolenta patrimoniale e la bancarotta impropria da operazioni dolose ex art. 223, co. 2, n. 2, l. fall.

Il collegio si limita a richiamare il costante orientamento di legittimità secondo cui le due fattispecie hanno ambiti di applicazione diversi "postulando il primo il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; concernendo invece il secondo condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività, ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 legge fall., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali - concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società - siano stati causa del fallimento (ex multis, Sez. V, n. 24051 del 15 maggio 2014, Lorenzini e altro)".

 La Cassazione, pur riconoscendo che i giudici di merito hanno correttamente fatto riferimento a tale impostazione, ne censura l'applicazione relativamente ad una porzione dei fatti oggetto di causa. Invero, la Corte d'Appello aveva ritenuto di qualificare quali azioni distinte, sia sul piano naturalistico che di qualificazione giuridica, l'erogazione del finanziamento bridge a Parmalat e la successiva distrazione dal patrimonio di questa a quello di altre società.

Invece, secondo la S.C., le due condotte naturalisticamente distinte non sono altro che due passaggi di un'unica condotta distrattiva.

Dunque, il fatto di erogazione del prestito deve ritenersi contenuto nella successiva distrazione e il corrispondente reato di bancarotta impropria da operazioni dolose assorbito in quello di bancarotta per distrazione

Di qui l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di merito limitatamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

 Altra questione sottoposta al vaglio di legittimità attiene all'ubi consistam dell'evento dei reati di bancarotta impropria da reato societario (art. 223, co. 2, n. 1, l. fall.) e dell'evento dei reati di bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223, co. 2, n. 2, l. fall.). I ricorrenti lamentavano infatti che l'evento di tali fattispecie sarebbe da identificare nel "fallimento" e non invece nel "dissesto" della società.

Ancora una volta la soluzione del problema investe il corretto significato da attribuire al termine "fallimento" utilizzato dal legislatore. Rileva infatti la Corte che, mentre - come si è visto - l'art. 216 l. fall. fa riferimento al "fallimento" in senso formale (ossia al provvedimento giurisdizionale), l'art. 223 l. fall. fa riferimento al "fallimento" in senso sostanziale, cioè alla "situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio".

Infatti, se per "fallimento" nell'art. 223 l. fall. non si intendesse la situazione sostanziale di dissesto in cui versa la società, si avrebbe una inutile duplicazione del riferimento alla dichiarazione di insolvenza già contenuto nel rinvio che la norma fa all'art. 216 l. fall.

Inoltre, poiché l'art. 223 l. fall. richiede la sussistenza del nesso causale tra condotta e fallimento, estremo della relazione eziologica - per quanto visto nei paragrafi precedenti - deve essere proprio il dissesto, e non il provvedimento giurisdizionale che accerta il fallimento.

 Sotto altro profilo, le difese degli imputati ritengono che l'art. 223 l. fall. non incrimini il mero aggravamento della situazione di decozione, bensì la causazione stessa del dissesto.

Tesi che troverebbe fondamento nella diversa formulazione letterale tra l'art. 223 e l'art. 224 l. fall.

Tuttavia, anche tale censura è respinta.

Infatti, il collegio argomenta che a sostegno della punibilità (anche) della condotta di aggravamento depongono sia la disciplina generale sul concorso di cause dettata dall'art. 41 c.p., sia la fenomenologia stessa del dissesto, in quanto è situazione che non si verifica istantaneamente ma con progressione e durata nel tempo.

Così riepilogate le questioni giuridiche salienti esaminate dalla sentenza, pare opportuno ritornare (in breve e compatibilmente con le caratteristiche del presente elaborato) sul punto nodale: il ruolo che assume la sentenza dichiarativa di fallimento nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta.

Come detto, la Corte afferma espressamente di aderire all'orientamento tradizionale secondo cui la fattispecie prevista dal primo comma dell'art. 216 l. fall. è "reato di condotta e di pericolo, sorretto dal dolo generico, al cui oggetto rimarrebbe estranea non solo la sentenza dichiarativa, ma anche solo lo stato d'insolvenza o il dissesto che ne costituiscono il presupposto".

In tale quadro, il collegio nega altresì la necessità del legame causale tra le condotte alternative tipizzate e la dichiarazione giudiziale di fallimento, e - nel tentativo di dare a quest'ultima una copertura dogmatica all'interno delle categorie in cui si scompone la struttura del reato - la qualifica quale "elemento orientativo dell'offesa di pericolo tipica del reato di bancarotta fraudolenta".

Tipicità che si evincerebbe dal disvalore intrinseco delle condotte ricostruito in ragione dell'oggetto della tutela penale del diritto di credito.

Diversamente, a partire dalla stessa premessa ["i comportamenti tipizzati nelle fattispecie di bancarotta esprimono compiutamente - nel momento stesso della loro realizzazione - il disvalore penale, inteso propriamente come l'offesa arrecata al bene giuridico tutelato (la garanzia dei creditori)", così Mucciarelli, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi?, in questa Rivista, 23 febbraio 2015], la dottrina ampiamente maggioritaria giunge a conclusioni contrarie, invero attribuisce alla dichiarazione di fallimento la diversa qualifica di condizione obiettivadi punibilità in quanto essa "entra nella fattispecie non perché fondi o incrementi il disvalore intrinseco nei fatti di bancarotta, ma per mere ragioni di opportunità (...) la dichiarazione di fallimento nulla aggiunge all'offesa alle ragioni creditorie già insita nei fatti di bancarotta" (Pedrazzi, Reati fallimentari, in Pedrazzi-Alessandri-Foffani-Seminara-Spagnolo, Manuale di diritto penale dell'impresa, II ed. agg., 1998, 108).

Dunque, alla lettura di questa sentenza si ripropone l'interrogativo circa la reale incolmabilità del divario fra teoria e prassi (Mucciarelli, op. cit.). Viene infatti spontaneo chiedersi quale sia la reale posta in gioco che spinge la giurisprudenza ad essere così restìa a qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità. E' indubbio che su tale atteggiamento incida l'esigenza di individuazione del tempus e locus commissi delicti.

Ma, a ben vedere, quanto alla decorrenza del termine di prescrizione, l'art. 158, co. 2, c.p. statuisce che "quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata." Per converso, manca una disposizione normativa che dia soluzione alla questione relativa alla determinazione del luogo in cui radicare la competenza del giudice penale nei casi in cui la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione. In relazione a questo secondo profilo, qualificando la sentenza dichiarativa d'insolvenza alla stregua di condizione obiettiva di punibilità, si porrebbero problemi di non pronta soluzione.

Si noti però che la dottrina risolve la questione giungendo ugualmente (seppur per diverse vie) a considerare il locus commissi delicti nel luogo in cui è stata emessa tale sentenza (Mucciarelli, op. cit.).

Tuttavia, la necessità di risolvere problemi pratici non può giustificare il ricorso a costruzioni teoriche che non trovano corrispondenza sotto il profilo dogmatico.         

La Corte di cassazione, invece, da più di mezzo secolo - a partire dalla sentenza Mezzo del 1958 (Cass., Sez. un., 25 gennaio 1958, n. 2, Mezzo, cit.) - propone oscillanti forme di qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento (v. § 5). Ma proprio la difficoltà di individuare una chiara qualificazione giuridica e il ricorso a definizioni diverse nel tempo (da ultimo, in questa sentenza, quella di "elemento che orienta l'offesa") sono indici della mancata determinazione di un indirizzo coerente sul piano sistematico.

In definitiva, appare poco plausibile sostenere che la sentenza dichiarativa di fallimento abbia natura di elemento costitutivo del reato ma che essa non soggiaccia alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva poste dal codice penale.

La Cassazione sembra introdurre la categoria giuridica dell'"elemento costitutivo del reato che non è oggetto del dolo".                       

Ma tale operazione non appare concepibile poiché si tratta di una teorizzazione ad hoc di una nuova categoria generale a cui ricondurre un'unica e sola ipotesi (la sentenza dichiarativa di fallimento necessaria alla punibilità del reato di bancarotta).

Per di più, si tratta di categoria che pone evidenti criticità di rilievo costituzionale, sol che si pensi ai noti principi elaborati dalla Consulta a partire dalle celebri sentenze nn. 364 e 1085 del 1988.

Pertanto, delle due l'una: o la sentenza dichiarativa di fallimento è l'evento in senso tecnico del reato (causalmente connesso alla condotta dell'agente ed oggetto del dolo), ovvero è una condizione obiettiva di punibilità.

Dato che la Corte stessa - con ampia e condivisibile argomentazione- nega la prima soluzione, non resta che optare per la seconda delle due alternative.

La pronuncia esaminata ha tarpato le ali alla prima coraggiosa rondine primaverile (cfr. Viganò, op. cit., in riferimento alla sentenza Corvetta) e - collocandosi quale ideale epilogo della trilogia apertasi lo scorso anno con le sentenze Daccò (Cass., Sez. V, 7 maggio 2014, n. 32031, cit.) e Tanzi (Cass., Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352, cit.) - sembra aver chiuso le porte, quanto meno allo stato attuale, ad un (auspicabile) intervento delle Sezioni unite.

Conclusioni.

La Corte di Cassazione, con questo "cambio di rotta" giurisprudenziale, non  ha fatto altro che sviluppare la dottrina più accreditata sulle condizioni obiettive di punibilità "intrinseche" sul nostro ordinamento, tra cui si annovera appunto la sentenza dichiarativa di fallimento in tutti i reati di bancarotta(così come il pericolo per la pubblica incolumità , previsto per il reati di incendio di cosa propria di cui all’art. 424 c.p.)[7].

Esemplificando: si può evidenziare, mettendo in rilievo le caratteristiche giuridiche peculiari delle condizioni obiettive di punibilità, che  esse, nella versione "intrinseca", realmente si configurano all’interno della sentenza dichiarativa di fallimento (con riferimento alla bancarotta prefallimentare), ricollegandosi integralmente alle conclusioni esaustive varate dalla dottrina più accreditata secondo cui:

Le condizioni obiettive di punibilità sono contemplate dal codice penale all'art. 44 che così testualmente recita: "quando, per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l'evento da cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui voluto".
La punibilità, in via generale, viene definita dalla dottrina come una situazione giuridica complessa caratterizzata dalla compresenza della potestà punitiva statuale e dalla situazione di soggezione alla pena del reo; affinché tale situazione complessa si verifichi è necessario il concorso di tre elementi: 1) la realizzazione di un fatto di reato; l'insussistenza di cause personali di non punibilità; l'eventuale sussistenza delle condizioni obiettive di punibilità contemplate dalla fattispecie astratta.
Sotto il profilo dogmatico dell'inquadramento delle condizioni obiettive di punibilità, a fronte di una tesi che le considera come elementi integrativi del fatto tipico di reato futuri ed incerti e non avvinti da un necessario legame psicologico con l'autore nè da un necessario nesso eziologico con la sua condotta, la dottrina prevalente ritiene che le medesime non entrino, invece, a far parte del fatto tipico di reato ma ne condizionino solo la punibilità in relazione a considerazioni di politica criminale del Legislatore.
I caratteri delle condizioni obiettive di punibilità sono: 
1) il non necessario legame psicologico con l'autore del reato (anche se, per una parte della dottrina, detto legame, almeno sotto il profilo dell'imputabilità a titolo di colpa, dovrebbe sussistere con riferimento alle condizioni obiettive cc.dd. intrinseche); 
2) il non necessario legame causale con la condotta integrativa del fatto di reato; 
3) la loro distinzione con l'evento del reato, così come desumibile dall'art. 158 c.p., che fissa un termine prescrizionale distinto rispetto alla consumazione del reato ove sussistano condizioni obiettive di punibilità; in tal caso la prescrizione, infatti, decorre dal momento della realizzazione della condizione obiettiva di punibilità; 
4) il fatto che le stesse non debbono consistere nel risultato offensivo punito dalla norma penale potendo esclusivamente concorrere ad aggravarne l'offensività  (le cc.dd condizioni di punibilità intrinseche); 
5) la loro collocazione in tempo contestuale o successivo      alla realizzazione del fatto di reato; 
6) l'incertezza in ordine alla loro verificazione.
La dottrina usa distinguere le condizioni obiettive di punibilità intrinseche, che aggravano il risultato offensivo della condotta (ad esempio la dichiarazione di fallimento nei reati di bancarotta prefallimentare, il pericolo di malattia nell'abuso dei mezzi di correzione di cui all'art. 571 cp, il nocumento nei delitti contro l'inviolabilità dei segreti, il pubblico scandalo nel delitto di incesto ex art. 564 cp) dalle condizioni di punibilità estrinseche che, invece, sono slegate dal risultato offensivo e rappresentano il frutto di mere scelte di politica criminale (ad esempio, l'annullamento del matrimonio nell'induzione al matrimonio mediante inganno).
L'aspetto più delicato delle condizioni obiettive di punibilità è quello relativo alla comunemente ritenuta non necessarietà del legame psicologico con l'autore del fatto tipico. Ed infatti, specie con riferimento alle condizioni obiettive di punibilità intrinseche che, come visto, concorrono a determinare il risultato offensivo della condotta,la mancata riferibilità psicologica delle medesime sembrerebbe configurare una responsabilità oggettiva contrastante con l'art. 27 Cost. e con il relativo principio della responsabilità personale colpevole.
Anche per questa ragione, di ordine costituzionale, parte della dottrina ritiene che fatti che comunemente vengono considerati come condizioni obiettive di punibilità (ad esempio il publico scandalo nel delitto di incesto o il pericolo di malattia nell'abuso dei mezzi di correzione di cui all'art. 571 cp), costituiscano, in realtà, eventi di reato e, come tali, debbano essere avvinti dal nesso psichico con l'autore del fatto[8].   

Tali conclusioni,  sia pure enunciate in attesa di una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione in materia, mandano già da ora pacificamente "in soffitta", la giurisprudenza anteriore (vetusta) secondo la quale "la sentenza dichiarativa di fallimento non costituisce una condizione obiettiva di punibilità dei reati di bancarotta, ma integra un elemento costitutivo di essi" e di conseguenza "i fatti compiuti dall’imprenditore ( atti di disposizione o altri atti enumerati dall’art. 216 l.f. come ipotesi di bancarotta) diventano penalmente rilevanti  solo con la pronuncia dichiarativa  di fallimento", cosicchè "per la coincidenza del momento consuntivo del reato con il luogo della dichiarazione di fallimento , ivi si radica la competenza", mentre "nella bancarotta prefallimentare in cui la già pronunciata sentenza dichiarativa di fallimento  opera come presupposto del reato, la consumazione si attua  nel tempo e nel luogo della commissione dei fatti delittuosi  ed ivi si radica ai fini della competenza territoriale" (Sez. 5 sent. 2334 del 15-2-89 (ud. 15-12-88) rv. 180525).

In altri termini, secondo il ragionamento precedente, sviluppato dalla Suprema Corte di Cassazione, la sentenza dichiarativa di fallimento non poteva essere considerata una condizione obiettiva di punibilità, perché , secondo I Giudici di Piazza Cavour, prima della sua pronuncia non esisteva "un reati perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi", sulla cui punibilità essa potesse "influire pur restando estranea alla fattispecie", configurandosi, a parere degli Ermellini, "solo dei fatti penalmente irrilevanti", per cui "solo con la dichiarazione di fallimento" questi fatti venivano qualificati penalmente illeciti, assumendo "la natura di reato" in quanto "la sentenza dichiarativa", condizionava "la produzione dell’evento", da cui dipendeva "l’esistenza del reato, evento costituito dalla lesione  o dalla messa in  pericolo dell’interesse dello Stato alla par condicio creditorum" .

Ne conseguiva che "attenendo strettamente all’integrazione della fattispecie legale", la sentenza stessadoveva essere considerata "un elemento" al cui concorso era collegata "l’esistenza del reati di bancarotta" (Applicazione in tema di competenza per territorio – Sez. 1 ord 374 del 25-7-73) rv. 124661).

Ciò implicava, secondo la Suprema Corte di Cassazione, che andava considerato "inapplicabile il principio della efficacia retroattiva della condizione sospensiva che sta alla base del negozio giuridico (art. 1353 c.c.)" per cui "col verificarsi dell’evento futuro ed incerto", il negozio acquistava efficacia con effetto ex tunc.

In conclusione, secondo i Giudici della Suprema Corte di Cassazione, il negozio condizionato andava considerato "ab initio giuridicamente inesistente e l’avverarsi della condizione", ne faceva retroagire l’efficacia, mentre nel reato condizionato ( ed in particolare nel reato di bancarotta), i fatti dell’imprenditore andavano considerati irrilevanti per il diritto penale, "prima della dichiarazione di fallimento e soltanto per effetto di questo", importavano "la violazione delle relative norme incriminatrici assurgendo a figura di reato"(Sez. I, ord. 888 del 25-7-73 (cc. 11-5-73) rv. 124699)[9].

Alla Corte di Cassazione l’ardua sentenza da emanare in materia.

Bibliografia.

15 febbraio 2017 - LA CORTE DI CASSAZIONE MUTA ORIENTAMENTO: LA SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO, NELLA BANCAROTTA PRE-FALLIMENTARE, È CONDIZIONE OBIETTIVA DI PUNIBILITÀ (INFORMAZIONE PROVVISORIA) DPC Diritto Penale contemporaneo (www.penalecontempraneo.it).

Il fallimento come condizione obiettiva di punibilità (Cass. Penale N. 13910/2017) pubblicato il 1 Aprile 2017 by Ornella Mineo in Penale ( su www.salvisjuribus.it).

COMMERCIALE –BANCAROTTA PREFALLIMENTARE –La sentenza di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità – martedi 02 Maggio 2017 -  di Di Vizio Fabio – Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia ( su:www.quotidianogiuridico.it).

14 Gennaio 2013 Francesco Viganò – Una sentenza controcorrente della Cassazione in materia di bancarotta fraudolenta. Necessaria la prova del nesso causale del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento(Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502, Pres. Zecca, Est. Demarchi Albengo, Imp. Corvetta e a.).

STRUMENTI PER LO STUDIO DEL DIRITTO Per l’Università, i concorsi e la formazione – Raffaele Greco, Andrea Nocera, Sergio Zeuli – CODICE PENALE illustrato – Aggiornato con la Legge "svuota carceri"(L. 199/2010) – Dottrina – Giurisprudenza – Schemi – Mappe e materiali – 2011 Sesta Edizione – CELT CasaEditriceLaTribuna (Art. 44 c.p. Par. 2 "Tipologie" pag. 103).

Condizioni obiettive di punibilità (www.diritto-penale.it).

I codici COMMENTATI C3 CODICE PENALE ANNOTATO CON LA GIURISPRUDENZA XIII EDIZIONE  a cura di Sergio Beltrani Raffaele Marino Rossana Petrucci 2006 Luglio con CD ROM Edizioni Giuridiche Simone – Gruppo Editoriale Esselibri – Simone (Art. 44 c.p. Par. 4 "Applicazioni pratiche: la sentenza dichiarativa di fallimento( nei reati fallimentari)" pag. 186).


[1] Da: 15 febbraio 2017 - LA CORTE DI CASSAZIONE MUTA ORIENTAMENTO: LA SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO, NELLA BANCAROTTA PRE-FALLIMENTARE, È CONDIZIONE OBIETTIVA DI PUNIBILITÀ (INFORMAZIONE PROVVISORIA) DPC Diritto Penale contemporaneo (www.penalecontempraneo.it)

[2]Ibidem.

[3]Ibidem.

[4]Il fallimento come condizione obiettiva di punibilità (Cass. Penale N. 13910/2017) pubblicato il 1 Aprile 2017 by Ornella Mineo in Penale ( su www.salvisjuribus.it).

[5] COMMERCIALE –BANCAROTTA PREFALLIMENTARE –La sentenza di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità – martedi 02 Maggio 2017 -  di Di Vizio Fabio – Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia ( su:www.quotidianogiuridico.it).

[6]14 Gennaio 2013 Francesco Viganò – Una sentenza controcorrente della Cassazione in materia di bancarotta fraudolenta. Necessaria la prova del nesso causale del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento(Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502, Pres. Zecca, Est. Demarchi Albengo, Imp. Corvetta e a.)

[7]STRUMENTI PER LO STUDIO DEL DIRITTO Per l’Università, i concorsi e la formazione – Raffaele Greco, Andrea Nocera, Sergio Zeuli – CODICE PENALE illustrato – Aggiornato con la Legge "svuota carceri"(L. 199/2010) – Dottrina – Giurisprudenza – Schemi – Mappe e materiali – 2011 Sesta Edizione – CELT CasaEditriceLaTribuna (Art. 44 c.p. Par. 2 "Tipologie" pag. 103).

[8]Condizioni obiettive di punibilità (www.diritto-penale.it).

[9]I codici COMMENTATI C3 CODICE PENALE ANNOTATO CON LA GIURISPRUDENZA XIII EDIZIONE  a cura di Sergio Beltrani Raffaele Marino Rossana Petrucci 2006 Luglio con CD ROM Edizioni Giuridiche Simone – Gruppo Editoriale Esselibri – Simone (Art. 44 c.p. Par. 4 "Applicazioni pratiche: la sentenza dichiarativa di fallimento( nei reati fallimentari)" pag. 186).

 

Ultima modifica il 17 Luglio 2017