, che è stato adottato – insieme con analogo schema in materia di ammortizzatori sociali − dal Consiglio dei ministri del 24 dicembre 2014, in iniziale attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 – denominata appunto “Jobs Act” – la quale, peraltro, nel suo ampio e complesso contenuto, contempla ben cinque deleghe legislative, per ciascuna delle quali prevede la emanazione di uno o più decreti delegati, la cui complessiva emanazione dovrebbe portare a “rivoluzionare” il diritto e il mercato del lavoro italiano.
Ciò emerge chiaramente dall’intervento del Ministro Giuliano Poletti al Senato, in sede di approvazione della delega, nel quale il Ministro ha detto che, sinteticamente, la finalità perseguita dal Governo è quella di “riprogettare le infrastrutture normative e gli strumenti operativi per fare in modo che la ‘PRIORITA’ AL LAVORO’ diventi davvero, concretamente realizzabile” ed ha, più volte, sottolineato che è la “delega lavoro”, in tutta la sua complessiva portata, ad essere per il Governo “assolutamente centrale e prioritaria”, non soltanto l’art. 18, che pur rappresentandone una parte significativa, non è nelle aspettative governative “l’Alfa e l’Omega“ di tutte le riflessioni, “come invece potrebbe apparire dalla discussione” che ha preceduto l’approvazione della legge.
Del resto, le suddette deleghe hanno ad oggetto tematiche molto ampie e rilevanti: 1) gli ammortizzatori sociali; 2) i servizi per il lavoro e le politiche attive del lavoro su tutto il territorio nazionale; 3) la semplificazione delle procedure e la razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti relativi alla costituzione e alla gestione dei rapporti di lavoro; 4) la tutela e la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, al fine di garantire adeguato sostegno alla genitorialità e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori; 5) il riordino delle forme contrattuali e dell’attività ispettiva, al fine di rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro attraverso la semplificazione delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro esistenti, da includere in un testo unico, onde rendere tali tipologie maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, nonché rendere più efficiente l’attività ispettiva.
In altri termini, l’obiettivo ambizioso avuto di mira è quello di modificare, dalle basi, il nostro mercato del lavoro e il sistema delle relazioni industriali, secondo il modello indicato dall’OIL e realizzato nei Paesi europei più avanzati.
pillole per dimagrire Ovviamente, un tale obiettivo potrà, eventualmente, essere raggiunto dall’attuazione della riforma nel suo complesso, tenendo conto altresì degli effetti sia del d.l. 20 marzo 2014, n. 34 convertito con legge 16 maggio 2014, n. 78 − che oltre ad avere totalmente liberalizzato il contratto a tempo determinato ha anche modificato la disciplina dell’apprendistato, nel senso della relativa “semplificazione” − sia della nuova deduzione IRAP e soprattutto dello sgravio contributivo triennale, entrambi previsti dalla legge n. 190 del 2014 – legge di Stabilità 2015, già operativi dall’1 gennaio 2015, benché sullo schema di decreto legislativo relativo al nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti vi sia da registrare una fase consultiva dinanzi alle competenti Commissioni parlamentari, che è stata caratterizzata da un vivace dibattito, peraltro molto proficuo e con risultati sostanzialmente convergenti.
Infatti, sia la Commissione Lavoro del Senato sia la omologa Commissione della Camera, nell’esprimere parere favorevole, hanno concordato nel sottolineare due esigenze: a) la necessità che l’esecutivo non estenda le nuove normative sul licenziamento individuale anche a quelli collettivi; b) la necessità di acquisire l’intesa della Conferenza Stato-Regioni con riguardo al contratto di ricollocazione (oggi inserito nello schema di decreto sui nuovi ammortizzatori sociali).
Va inoltre posto l’accento sul fatto che, nell’indicare gli obiettivi della delega sul nuovo contratto a tutele crescenti, nella legge n. 183 del 2014, si fa espresso riferimento all’emanazione di un decreto legislativo recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nonché al rispetto dei principi e criteri direttivi, “in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali” nonché alla promozione “in coerenza con le indicazioni europee”, del contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, da rendere “più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti” (comma 7, lettera b).
Di qui le misure varate con le legge di Stabilità, dirette a rendere le nuove assunzioni a tempo indeterminato più appetibili per le imprese, dal punto di vista economico.
Ma va detto che tali misure, se non vengono immediatamente accompagnate dalla prevista revisione delle tipologie contrattuali, anziché dirigere – in modo stabile – l’attenzione dei datori di lavoro e dei loro intermediari verso una maggiore occupazione (secondo le attese del Governo) rischiano di finire con il tradursi in semplici incentivi ad adottare una più conveniente modalità di assunzione di lavoratori che sarebbero stati comunque (o che sono già stati) assunti con contratti di lavoro a termine o di apprendistato, piuttosto che con contratti parasubordinati o quasi-autonomi come le collaborazioni coordinate e continuative, le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro e le collaborazioni in partita IVA, visto che il nuovo incentivo triennale non è vincolato al mantenimento in organico del lavoratore per un tempo predeterminato e neppure ha esclusive rispetto al singolo lavoratore e al singolo datore di lavoro.
In questa sede si cercherà quindi di analizzare la parte dello schema riguardante quelli che la legge di delega chiama i “licenziamenti economici”, leggendo tale disciplina alla luce dei principi desumibili dalla nostra Costituzione, dalla normativa dell’Unione europea e dalle convenzioni internazionali, la cui disamina precederà quella della nuova normativa proprio al fine di apprezzarne meglio il contenuto.
Del resto, questa è l’impostazione che ha seguito anche il nostro legislatore, facendo espresso riferimento ai suddetti principi nell’art. 1, comma 7, della stessa legge delega n. 183 del 2014 cit.
Ed è anche l’impostazione che, a mio avviso, può consentire – all’interprete – di valorizzare al meglio gli obiettivi avuti di mira nel Jobs Act, senza abbandonare la strada della tutela dei diritti fondamentali.
In altri termini, io credo che la nuova disciplina dei licenziamenti – in genere ed “economici”, in particolare – si presta ad essere variamente attuata, dagli operatori economici e giuridici e che una sua attuazione “virtuosa” dipenda essenzialmente da due fattori.
a) il “fattore tempo”, con riguardo alla emanazione di tutti i decreti attuativi previsti nella legge delega n. 183 del 2014 cit.;
b) il fattore valorizzazione dei principi costituzionali, comunitari ed internazionali che tutelano il diritto del lavoro – dipendente ed autonomo – da intendere nella consapevolezza delle mutevoli condizioni del mercato e dell’economia e alla luce del principio democratico che è un valore comune e identitario della UE nel suo complesso e dei singoli Stati che la compongono.
2.- Il “coraggio di cambiare”
In altri termini, il suddetto riferimento alla normativa europea e internazionale contenuto nella legge di delega in oggetto, unitamente con l’ampiezza complessiva della riforma, portano a credere che il Governo e il Parlamento intendano perseguire l’obiettivo di modificare il mercato del lavoro nazionale, facendo leva anche sul diffondersi di nuove relazioni industriali più vicine al modello applicato nei Paesi europei più avanzati.
È evidente che – come ha detto anche il Ministro Poletti – giungere a tale risultato comporta il “coraggio di cambiare” radicalmente l’attuale sistema, ma − si può aggiungere − è altrettanto chiara la necessità di modificare l’attuale stato di cose in cui, già a partire dalla c.d. legge Biagi (d.lgs. n. 276 del 2003), il nostro Paese si è tristemente distinto per la massiccia diffusione di forme di lavoro umilianti, diffusione che, per effetto della crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008, ha ancor più inciso negativamente sulla condizione dei nuovi occupati e dei giovani in generale, coniugandosi con una notevole perdita delle imprese nazionali, a sua volta dovuta alla perdita di produttività e capacità competitive, che spesso sono derivate dal mancato investimento nella formazione, nella ricerca e nella innovazione.
E, sulla base di queste premesse, appare coerente che si punti alla creazione di una situazione in cui i possibili conflitti non vadano risolti percorrendo ordinariamente la via giudiziaria, ma in sede di negoziazione tra le parti sociali.
Del resto, la strada giudiziaria è, per definizione, destinata a colpire le “patologie” dei comportamenti, mentre nel settore del lavoro come in tutti gli altri ambiti del vivere civile si deve puntare a diffondere prassi e comportamenti dei singoli, come delle parti sociali “fisiologicamente” corretti e rispettosi del principi fondamentali che regolano la materia, salvo restando che quando – nelle ipotesi che per la legge delega appaiono residuali – è necessario ricorrere al giudice, allora il diritto di difesa deve poter trovare la massima espansione, essendo anch’esso un diritto fondamentale.
È ovvio che questo obiettivo non può raggiungersi dall’oggi al domani, ma esso appare sicuramente condivisibile, benché, per iniziare il cammino – ricco di asperità − del suo raggiungimento non basta il solo decreto sul contratto a tutele crescenti.
Né va omesso di rilevare − sempre in positivo − che, per quel che concerne la contrattazione collettiva, sembra che si cerchi di frenare la tendenza ad indebolire i livelli centralizzati di contrattazione, tendenza che aveva trovato una sua significativa manifestazione nella cosiddetta – e discussa − “contrattazione collettiva di prossimità” prevista dall’art. 8 del decreto-legge n. 138 del 2011 (convertito dalla legge n. 148 del 2011).
Detto questo, va però precisato che avere cominciato dalla normativa sui licenziamenti non appare così “nuovo ed europeo”, visto che il licenziamento – soprattutto individuale − è la massima espressione del potere organizzativo e gestionale del datore di lavoro, mentre, come risulta in sede europea e in sede OIL, il mercato del lavoro del futuro – e del presente degli Stati più avanzati − non è incentrato su questo, ma sulla partecipazione e sulla condivisione del lavoro, dei rischi, dei risultati, che presuppongono differenti modi di lavorare, con il superamento delle storiche categorie della subordinazione e dell’autonomia.
Un mondo del lavoro, che pur con alcune criticità evidenziate dalla crisi economica europea, è, in sintesi, maggiormente “solidale”.
Per rendersene conto basta pensare, come esempio, alla vicenda della crisi del mercato dell’acciaio che la ThyssenKrupp, multinazionale tedesca, in Germania, a Duisburg, ha risolto con un accordo sindacale con il quale è stata introdotta una riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione ma si è evitato il licenziamento di 4500 persone almeno fino al 2020, mentre a Terni, nonostante il fattivo impegno del Governo, le cose sono andate diversamente e i lavoratori, dopo tante battaglie, si trovano a non avere alcuna certezza del loro futuro.
Realizzare il suddetto modello nel nostro Paese comporta una riscrittura di tutto il sistema di welfare, incentrandolo sulla persona piuttosto che sul contratto e puntando su un diverso ruolo delle associazioni di categoria dei lavoratori e dei datori di lavoro, anch’esse da “rivisitare”.
Si tratta di una riforma dei comportamenti, prima ancora che delle norme, che come tale, è difficile, ma necessaria.
3.- Le nuove norme sui c.d. “licenziamenti economici”
Questo è il quadro generale in cui vanno inserite le norme previste dallo schema in commento ed è anche il perimetro entro il quale l’interprete sarà chiamato ad adoperare le tecniche di interrelazione normativa tra norme del diritto nazionale, del diritto internazionale (specialmente, Convenzioni ONU), del diritto UE e/o della CEDU, secondo il metodo che la Corte costituzionale – tenendo conto anche degli orientamenti delle Corti europee “centrali” − ha indicato al fine di giungere alla combinazionetra le norme di fonte diversa che possa garantire la migliore tutela possibile al diritto fondamentale, di volta in volta, esaminato.
Ciò vale anche per quelli che la legge delega chiama “licenziamenti economici” – con espressione non del tutto appropriata, dal punto di vista tecnico – locuzione nella quale si sono voluti comprendere sia i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi.
Allo stato è sufficiente osservare che la nuova normativa sui “licenziamenti economici”, per i licenziamenti collettivi pone soprattutto problemi di rispetto della delega (visto che tale tipo di licenziamenti non sono ivi espressamente menzionati) oltre a quelli evidenziati dalle Commissioni parlamentari, mentre per la parte riguardante i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo − così come per la parte relativa agli altri licenziamenti − appare meritevole di chiarimenti terminologici (e non solo), anche alla luce delle indicazioni della Commissione Lavoro della Camera dei deputati.
Tale disciplina tuttavia è restata immutata rispetto alle predette indicazioni sicchè in sede giudiziaria sarà necessario essere pronti ad utilizzare in modo appropriato, in particolare sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, lo strumento della interpretazione conforme ai principi fondamentali che regolano il diritto del lavoro e che hanno la loro base nella configurazione del lavoratore dipendente come il contraente più debole nel rapporto di lavoro, principio che si ricava anche dalla Costituzione, dalla Carta sociale europea e dalla Carta dei diritti fondamentali UE, oltre ad essere pacificamente riconosciuto da giuristi, sociologi ed economisti.
Importanti esponenti del Governo hanno dichiarato di aver tenuto presente questo principio. Ma tale affermazione non è del tutto coerente con il previsto potenziamento della facoltà del datore di lavoro di porre fine al rapporto, in quanto tale potenziamento, per come è stato previsto, rischia di aumentare la condizione di inferiorità (non solo psicologica) del lavoratore e, quindi, di indurlo a non opporre resistenza anche rispetto ad eventuali decisioni del datoriali palesemente sfavorevoli al lavoratore medesimo (assegnazione di mansioni inferiori, richieste eccessive di lavoro straordinario, ritardi nei pagamenti ecc.).
Sicché non è da escludere che in sede giudiziaria, le controversie possano risultare più complesse e più lunghe del previsto.
In ogni caso, è del tutto evidente e conforme alla nostra Costituzione che a fronte di un nuovo e importante intervento legislativo ci si deve comunque porre in atteggiamento positivo, riconoscendo ruolo e funzione dei decisori istituzionali (Parlamento e Governo), cui spetta di decidere quali diritti ampliare e quali comprimere e quali tutele accordare a essi.
A tutti i destinatari − e ai giudici in primo luogo − spetta di fare tutto ciò che è possibile perché la legge funzioni, assicurando la tutela dei diritti riconosciuti a ciascuna parte.
Per farlo credo che la strada migliore da seguire sia quella tracciata dai nostri Padri Costituenti, che, in sintesi, si può esprimere con una sola parola: solidarietà.