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L’ART. 18 ED IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: COME CAMBIA IL MONDO DEL LAVORO CON IL JOBS ACT

by Dott.ssa Rossella Staine on20 Novembre 2014

Al centro del dibattito politico degli ultimi mesi impera incontrastato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, fulcro delle polemiche mosse alla riforma del lavoro varata dal Governo Renzi, il famigerato Jobs Act, ora al vaglio della Camera dei deputati dopo la fiducia ottenuta al Senato. 

Prima di entrare nel vivo della vicenda politica occorre necessariamente ripercorrere la storia e l’evoluzione del succitato articolo, cardine della garanzia individuale dei diritti e delle libertà dei lavoratori.

L’art.18 sulla “Tutela del lavoratore dai licenziamenti illegittimi” rappresenta senza dubbio la norma simbolo del comunemente detto Statuto dei Lavoratori, L. 20 maggio 1970, n. 300. Lo Statuto dei Lavoratori concerne, come noto, “La tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”, ed è composto da VI titoli: I Libertà e dignità del lavoratore; II Libertà sindacale; III Attività sindacale; IV Disposizioni vere e generali; V Norme sul collocamento; VI Disposizioni finali e penali.

Ed è nel “Titolo II – Della libertà sindacale” dello Statuto che l’art. 18 è rubricato, occupandosi dei licenziamenti che avvengono senza giusta causa nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’articolo 18 indica quali sono i diritti e i limiti per chi viene licenziato in modo illegittimo e decide di fare richiesta al giudice (dopo un periodo di tempo che deve essere al massimo di 180 giorni dal momento in cui viene impugnato e non più di 270, dopo la riforma del 2012) per ottenere indietro il suo impiego o essere risarcito del danno subito. Esso è, in sostanza, una “sanzione” che viene comminata al datore di lavoro che ha licenziato illegittimamente un proprio dipendente. La norma funge, pertanto, da deterrente per il datore di lavoro che intenda licenziare il lavoratore senza essere sorretto da alcuna motivazione legittima. L’illegittimità del licenziamento si sostanzia nella mancanza di una giusta causa, di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o nella sussistenza di una discriminazione. Ma procediamo con ordine.

Il potere di recesso del datore di lavoro è stato da sempre oggetto di vari interventi legislativi limitativi, espressione del favore dell’ordinamento giuridico verso il lavoratore quale soggetto socialmente sottoprotetto. Per rispondere alle istanze di protezione in attuazione dei principi costituzionali ex artt. 3, 4 e 41, comma II, Cost., tali interventi hanno introdotto, a carico del datore, un obbligo generale di giustificazione del recesso. Essi si sono sovrapposti alla normativa codicistica degli artt. 2118 e 2119 c.c. ed oggi la disciplina generale del licenziamento nei rapporti di lavoro è contenuta in una serie di fonti legislative succedutesi nel tempo. La prima di tali leggi è rappresentata dalla L. 15 luglio 1966 n. 604: per la prima volta il potere di recesso del datore di lavoro veniva sottoposto oltre che a vincoli formali, quali ad esempio la comunicazione per iscritto del licenziamento, al limite sostanziale del giustificato motivo o della giusta causa.

Il licenziamento per giusta causa trova il suo fondamento legislativo nell’art. 2119 c.c., il quale consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro, senza preavviso, quando si verifichi una causa che non ne consenta la prosecuzione, neanche a titolo provvisorio. La giusta causa è stata interpretata dalla giurisprudenza come un comportamento così grave da impedire anche solo per un giorno la prosecuzione del rapporto.

L’altra causa autorizzativa del licenziamento, e cioè il giustificato motivo soggettivo, è stato all’uopo introdotto e disciplinato proprio dalla l. 604/1966, e individuato nella definizione di "un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali". Anche in tal caso siamo in presenza di una condotta riferita al lavoratore, anche se meno grave della giusta causa, la quale impedisce istantaneamente la prosecuzione del rapporto. Differenza con la giusta causa è che il giustificato motivo soggettivo impone l’obbligo di preavviso al lavoratore, in quanto il rapporto prosegue, anche se a titolo provvisorio, per il tempo occorrente al consumarsi del periodo di preavviso. 

In ultimo vi è il giustificato motivo oggettivo, il quale si riferisce a una ragione relativa all’ impresa e non più al comportamento del lavoratore (ad esempio, soppressione di un posto di lavoro o chiusura di un reparto), ed in questo caso viene meno l’utilità, per il datore di lavoro, della prestazione lavorativa resa dal dipendente.

Ai sensi della L. 604/66 se il licenziamento risultava essere ingiustificato, e dunque privo di giusta causa o di un giusto motivo oggettivo o soggettivo, il datore di lavoro avrebbe avuto l’obbligo di pagare una penale a titolo di risarcimento del danno (tutela obbligatoria). L’art. 18 fa la sua comparsa proprio a seguito della L. n. 604/66, segnando un salto di qualità della tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo, grazie alla previsione della reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno (c.d. tutela reale, con l’ annullabilità del licenziamento intimato in assenza di giustificazione). Ab origine, il campo di applicazione dell’art. 18 era limitato dall’art. 35 della stessa L. 300/70, riferendosi alle unità produttive con più di 15 dipendenti. Restavano prive di tutela, perché ancora assoggettate alla disciplina codicistica del libero recesso, fasce molto larghe di lavoratori, in special modo quelli facenti parti delle piccole imprese. L’esigenza di far si che anche questi lavoratori potessero godere di una tutela contro il licenziamento ingiustificato, a seguito anche della sentenza della Corte Costituzionale del 14 gennaio 1986, n. 2, ha portato alla emanazione della L. 11 maggio 1990, n. 108, che ha sancito il generale principio della giustificazione del licenziamento.

Questo assetto di tutela così delineatosi, con il suo cardine nell’art. 18, è il simbolo della lotta dei lavoratori dipendenti per il riconoscimento dei propri diritti contro gli abusi arbitrari da parte dei datori di lavoro.

L’art 18 ha però subìto una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma dell’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero, che ne ha mutato profondamente l’assetto ed ha gettato le basi per una sua rivisitazione in senso lato dell’articolo.

Nella sua versione ante riforma l’art. 18 prevedeva che “ (..) il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento (..)di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro(...) . Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto (..) Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell'indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti”.

Analizzandolo nello specifico, il licenziamento disciplinare doveva avvenire

1)    per giusta causa, e dunque per condotte di particolare gravità pregiudicanti definitivamente il rapporto di fiducia tra l’azienda ed il lavoratore (ad es. il furto all’interno dell’azienda o il rifiuto di lavorare).

2)    Per giustificato motivo soggettivo, per condotte meno gravi ma che rendono comunque difficoltosa la prosecuzione del rapporto di lavoro (in caso di notevoli inadempimenti degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore).

Se il giudice riteneva che non sussistessero tali requisiti dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava il reintegro del dipendente nel proprio posto di lavoro.

Il licenziamento economico doveva avere alla base un giustificato motivo oggettivo, cioè non doveva dipendere dalla condotta del lavoratore, ma da “ragioni inerenti all’attività produttiva” (ad esempio nel caso in cui l’attività dovesse chiudere, outsourcing, ecc.). Anche in questo caso, l’insussistenza di un requisito valido faceva si che il lavoratore dovesse essere reintegrato nel posto di lavoro.

Il licenziamento discriminatorio, infine, era quello che si verificava tutte le volte in cui il datore di lavoro avesse licenziato il lavoratore a causa di una sua partecipazione ad uno sciopero, per motivi politici, religiosi, razziali, di sesso. In questo caso l’art. 18 condannava il datore di lavoro alla riassunzione del dipendente, al risarcimento di un minimo di 5 mensilità ed al versamento dei contributi arretrati.

La legge n. 92 del 2012 (c.d. Riforma Fornero), come detto, ha modificato il testo dell’art. 18, superando l’automatismo tra licenziamento illegittimo e reintegrazione nel posto di lavoro.

In caso di licenziamento discriminatorio, cosi come avveniva con la precedente normativa, l'atto viene dichiarato nullo dal Giudice ed applicata la sanzione massima: reintegrazione (o "reintegro") con risarcimento integrale (pari a tutte le mensilità perdute ed ai contributi on versati).Dalla giurisprudenza è stato ricondotto nel paradigma del licenziamento discriminatorio anche quello c.d. “per ritorsione”, ossia quello derivante da comportamenti sgraditi al datore di lavoro. Ad ogni modo l’onere della prova rimane sempre in capo al lavoratore che agisce per far dichiarare il carattere discriminatorio o ritorsivo del licenziamento, pertanto è necessario fornire al giudice una pluralità di indizi che, seppur a livello presuntivo, permettono allo stesso di raggiungere la prova del fatto illecito.

Le stesse regole si applicano in caso di licenziamento orale (cioè comunicato solo verbalmente), o quando il licenziamento è avvenuto in concomitanza col matrimonio, con la maternità o la paternità. In caso di licenziamento disciplinare, il giudice può ritenere che non ci siano gli estremi per il licenziamento per due motivi: perché il fatto non sussiste oppure perché il fatto può essere punito con una sanzione di altro tipo. Però può decidere se applicare, come sanzione, la reintegrazione con risarcimento limitato nel massimo di 12 mensilità, oppure il pagamento di un'indennità risarcitoria, tra le 12 e le 24 mensilità, senza versamento contributivo.

Per quanto concerne il licenziamento economico esso può essere anche motivato da "giustificato motivo oggettivo", cioè da ragioni inerenti "l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa".

Se il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, può condannare l'azienda al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura ridotta, da 12 a 24 mensilità, tenendo conto dell'anzianità del lavoratore e delle dimensioni dell'azienda stessa, oltre che del comportamento delle parti.

Se però ritiene che l'atto è "manifestamente infondato", applica la stessa disciplina della reintegrazione dovuta per il licenziamento disciplinare

La critica maggiore scaturente dalla riforma Fornero risiede nel fatto che la nuova disciplina riduce e rende molto complicata l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivavano in Tribunale: quelli in cui le prove non sono univoche, quelli in cui l’illegittimità è molto difficile da dimostrare, come nei casi di discriminazione spesso mascherati da motivazioni economiche e quelli in cui risulta fondamentale l’interpretazione del giudice.  Il paradosso creatosi è che anche il lavoratore che ritiene di essere stato licenziato ingiustamente sarà portato a rinunciare all’azione giudiziaria, poiché il giudice, al termine dell’iter processuale, potrebbe non reintegrarlo ma corrispondergli unicamente un risarcimento cui egli non ha interesse.

Nuove modifiche all’art. 18 verranno apportate dal Jobs Act del Governo Renzi che, come sopra ricordato, è ora al vaglio della Camera dei Deputati. E’ bene ricordare che il Jobs Act non riveste i caratteri tipici né di un decreto è né di un ddl, trattandosi di un disegno di legge delega: nel caso in cui il provvedimento ottenga il placet della Camera dei deputati, e dunque la delega dal Parlamento, l’esecutivo potrà legiferare in autonomia (leggasi “con discrezionalità”) sulle questioni attinenti il mercato del lavoro.

Proprio per questa ragione il Governo ha preferito accaparrarsi la delega a legiferare in materia di contratti invece che concentrarsi specificamente sull’art. 18, in modo da avere più margini per agire. In sostanza, la riforma del lavoro del Governo Renzi non parla a chiare lettere dell’art. 18 ed il modo in cui quest’ultimo verrà modificato dipenderà dai decreti delegati di volta in volta emanati dall’esecutivo dopo che il Jobs Act avrà concluso l’iter di approvazione in Parlamento. I decreti delegati, dunque, andranno ad inscriversi all’interno della cornice della riforma del lavoro. Il Governo ha però anticipato la propria idea di revisione dell’art. 18: grandi modifiche verranno apportate ai licenziamenti economici, che saranno esclusi in toto dalla discrezionalità del giudice (non vi sarà più la possibilità di reintegro, quindi) e vedranno l’indennizzo statale in relazione all’anzianità contributiva. I licenziamenti discriminatori non saranno toccati e su quelli disciplinari non vi sono ancora notizie certe, se non che l’esecutivo ha preso l’impegno di definire esplicitamente i casi in cui il licenziamento disciplinare debba essere ritenuto illegittimo di modo da limitare la discrezionalità dell’autorità giudiziaria.

La tutela reale offerta dall’art. 18, già ridimensionata, come detto, dalla Riforma Fornero, verrà pertanto ancora più ridotta per i licenziamenti economici e per quelli disciplinari (e pertanto sulla stragrande maggioranza dei licenziamenti in Italia, data l’insufficienza probatoria, per il lavoratore, nel caso di licenziamento discriminatorio).

La novità più importante del Jobs Act è infatti rappresentata dal c.d. modello di contratto a tutele crescenti per i lavoratori neoassunti, figura non del tutto nuova nel nostro panorama legislativo in quanto facente parte di una proposta di riforma delle assunzioni e dei licenziamenti di non molti anni fa (2009).  Quello a tutele crescenti è un tipo di contratto a tempo indeterminato che congelerebbe le tutele legate all’art. 18 nella fase iniziale del rapporto di lavoro (che presumibilmente sarà lunga tre anni), per poi introdurre “a crescere” le garanzie per il lavoratore. Per i neo-assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti dovrebbe pertanto esservi l’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, sostituiti dal solo indennizzo. La riforma dell’art. 18, pertanto, sarà veicolata e strettamente connessa all’introduzione di questa nuova tipologia contrattuale, in cui l’anzianità di servizio determinerà il grado di godimento dei diritti costituzionali da parte dei lavoratori. Il rischio che si corre è che si crei una paradossale correlazione tra l’età del dipendente e la possibilità di essere vittima di licenziamenti arbitrari, in quanto solo con il raggiungimento della anzianità di servizio sarà possibile godere di taluni diritti.

Il condizionale è d’obbligo, poiché, come già ricordato, il testo del Jobs Act non parla espressamente di art. 18, ma saranno i decreti delegati a delinearne nello specifico il nuovo profilo .

Con il contratto a tutele crescenti il Governo prevede poi di riordinare e snellire le oltre 40 forme di contratto attuali, compresi i contratti ad intermittenza, i contratti a progetto ed i famigerati cocopro, (rei di aver spalancato le porte al precariato in Italia).Si è optato, dunque, per un riordino delle tipologie contrattuali, abolendo, come affermato dallo stesso esecutivo “le forme più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto”.

Il Jobs Act introduce, inoltre, la possibilità per il datore di lavoro di far cambiare mansioni al dipendente senza che ciò vada ad incidere sul proprio salario, nonché la previsione di ammortizzatori sociali per la tutela della maternità delle lavoratrici autonome e per il sussidio di disoccupazione, esteso a chi ha lavorato per almeno 3 mesi,

Le critiche mosse al Jobs Act sono, ad oggi, molteplici. L’opposizione e la minoranza del PD hanno evidenziato che il contratto a tutele crescenti allungherà esponenzialmente il “periodo di prova” del lavoratore dipendente, creando una paradossale precarietà di tipo strutturale e che la tutela reale offerta dall’art. 18 verrà drasticamente ridimensionata per i neoassunti, che potranno godere esclusivamente di una tutela di tipo obbligatorio. Il Jobs Act, inoltre, parrebbe incentivare il demansionamento del lavoratore (seppur a parità di salario) e abbassare le tutele contrattuali senza prevedere alcun investimento in politiche fiscali e sociali di sostegno al reddito per i meno abbienti.

Il testo, seppur con consistenti turbolenze, ha intanto ottenuto la fiducia dal Senato, con 165 si e 111 no. Il testo su cui è stata chiesta la fiducia (la ventunesima chiesta da Renzi, escluse le prime due sul programma,) non è, occorre precisare, quello approvato lo scorso 18 settembre in commissione Lavoro del Senato, ma un nuovo testo modificato con un maxi-emendamento del governo.

Se già al Senato la situazione non era delle più rosee, alla Camera i dissidenti contro il Jobs Act, oltre che più agguerriti, sono anche superiori numericamente.

La “delega in bianco” chiesta dal Governo Renzi non convince soprattutto la minoranza del PD, che minaccia di non votare la fiducia se il Governo non metterà per iscritto l’inviolabilità dell’art. 18. Ciò che si chiede, in sostanza, è che il Governo fissi in maniera certa i confini entro cui si muoverà (dando attuazione al Jobs Act) nella revisione dell’art. 18.

Si attendono, pertanto, sviluppi sulla vicenda, ma la domanda che spontaneamente sorge è il perché l’art. 18, simbolo e caposaldo delle lotte per i diritti dei lavoratori, paia rappresentare, per chi ci governa, la panacea di tutti i mali e, soprattutto, che sillogismo intercorra tra minori tutele in termini di licenziamento e la creazione di nuovi posti di lavoro. Ai decreti delegati l'ardua sentenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ultima modifica il 20 Novembre 2014