Ma andiamo con ordine. Il potere ablatorio è stato a lungo il potere caratteristico e tipico in base al quale si distingueva il rapporto tra amministrazione e privato dal rapporto tra privati. L’amministrazione poteva, infatti, incidere negativamente sulla sfera giuridica di un privato anche in assenza del consenso di quest’ultimo, mediante l’adozione di un provvedimento qualificato come ablatorio, per effetto del quale il privato veniva spogliato di una utilità che gli apparteneva.
Sono ablatori, per definizione, gli atti con cui il pubblico potere, per un vantaggio della collettività, sacrifica l’interesse ad un bene della vita di un privato, producendo l’effetto di privarlo di una posizione giuridica di vantaggio. Allo scopo di evitare che un potere così incisivo potesse dare luogo ad arbitrio, l’ordinamento ha sempre previsto una serie di garanzie e limiti per il suo esercizio, prescrivendo, in primo luogo, che il potere si potesse esercitare solo nei casi previsti dalla legge.
Con la legge 2359 del 1865 si determinavano gli elementi essenziali del procedimento di espropriazione, via via ripresi dalle norme successive. Sul piano delle garanzie si prevedeva appunto che l’esercizio del potere ablatorio potesse essere esercitato solo nei casi previsti dalla legge, che l’espropriazione potesse avvenire solo per motivi di interesse generale e che al proprietario espropriato andasse corrisposta una indennità.
Successivamente sia il codice civile, in particolare all’art. 834, sia la Costituzione, con l’art. 42, hanno previsto che la proprietà privata possa essere espropriata. La norma di cui all’art. 42 Cost. costituisce indubbiamente il pilastro fondamentale del sistema espropriativo: le prescrizioni in essa contenute configurano la proprietà privata come diritto riconosciuto e garantito dalla legge stabilendo i limiti che ad essa possono essere apposti. Il al co. 3 dell’art. 42 Cost. prevede, infatti, che la proprietà privata possa essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata “per motivi d’interesse generale”.
Dall’ordinamento si ricavano, quindi, due principi cardine in materia di espropriazione: la riserva di legge e l’obbligo d’indennizzo. Il primo impone che il legislatore specifichi i presupposti e le modalità di esercizio del potere ablatorio, indicando nei confronti di quali categorie di beni, in favore di quali soggetti, in funzione di quali interessi e con quali modalità lo stesso possa essere esercitato. Quanto al secondo, dal momento che la Costituzione subordina la possibilità per la P.A. di esercitare la propria potestà ablatoria alla corresponsione di un indennizzo, è chiaro che quest’ultimo si pone come elemento essenziale nel procedimento espropriativo.
Una serie di interventi ad opera del legislatore e della giurisprudenza hanno segnato la storia del difficile bilanciamento tra l’interesse proprietario e quello pubblico. Per lungo tempo la stessa giurisprudenza ha precluso al privato una tutela piena ed effettiva, contemplando il risarcimento del danno quale principale strumento di garanzia avverso l’esercizio illegittimo del potere ablatorio. Esemplare è, in proposito, la vicenda della c.d. accessione invertita.
Proprio nel riconoscimento dell’operatività dell’accessione invertita, quale modalità “sussidiaria” di acquisto della proprietà, si è infatti manifestato il favor nei confronti della pubblica amministrazione nelle ipotesi di espropriazione avvenute in via di fatto, ossia a seguito di “comportamenti” dal contenuto sostanzialmente ablatorio.
Il meccanismo dell’accessione invertita è frutto di un’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale, in particolare, i comportamenti della pubblica amministrazione in materia di espropriazione possono essere ricondotti nelle due categorie dell’occupazione usurpativa e dell’occupazione acquisitiva. Nella prima ipotesi l’occupazione avviene in carenza di titolo: il privato perde la proprietà in assenza dei necessari presupposti di legge, ossia di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità.
Si ha, invece, un’occupazione acquisitiva quando, pur sussistendo una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità, si verifica un’irreversibile trasformazione del bene occupato a seguito della costruzione dell’opera pubblica, senza che il procedimento espropriativo sia giunto alla sua conclusione mediante l’adozione del decreto di esproprio.
In tali ipotesi, la giurisprudenza nazionale, pur riconoscendo l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione, ha per lungo tempo ritenuto che si realizzasse comunque un acquisto del bene a titolo originario, se pure con inversione dell’accesso al bene stesso rispetto al titolo che dovrebbe legittimarlo. Per il privato illegittimamente espropriato l’unica forma di tutela rimane quella di tipo risarcitorio.
La questione ha immediatamente suscitato dubbi di legittimità dal momento che il privato finisce per essere spogliato delle fondamentali garanzie procedimentali e degli strumenti di tutela reale. L’istituto è stato anche oggetto delle censure della Corte europea dei diritti dell’uomo, che lo ha ritenuto in contrasto con il diritto di proprietà tutelato nel Protocollo aggiuntivo alla Convenzione. L’Italia per questo ha subito sentenze di condanna che hanno accertato la violazione del Protocollo 1, art. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del principio di legalità ivi enunciato.
La Corte europea ha spiegato che l’istituto dell’accessione invertita è in contrasto con il principio di legalità poiché mira a consolidare una situazione di fatto, permettendo all’amministrazione di aggirare le disposizioni relative al procedimento espropriativo.
Secondo la Corte di Strasburgo la migliore forma di riparazione consiste nella restituzione del bene da parte della p.a., in aggiunta all’indennizzo per la privazione del godimento non mancando di ribadire in più occasioni i richiamati principi di legalità come nella nota sentenza del 2002 sul caso Carbonara e Ventura.
L’orientamento secondo cui il privato ha diritto di ottenere la restituzione del bene espropriato e non il solo ristoro patrimoniale, è stato recepito anche dal Consiglio di Stato, riunito in adunanza plenaria, con la sentenza n. 2 del 2005, la quale ha riconosciuto per il caso di una procedura espropriativa illegittima che ha condotto alla realizzazione di un’opera pubblica, il diritto del cittadino-proprietario di vedersi restituito il bene illegittimamente espropriato anche se l’area era stata già trasformata a seguito della realizzazione dell’opera.
Una problematica altrettanto rilevante affrontata dalla giurisprudenza, anche costituzionale, è costituita dalla controversa questione delle modalità di calcolo dell’indennizzo dovuto a seguito dell’espropriazione. Al riguardo occorre in primo luogo rilevare come si siano registrate molteplici pronunce che hanno dichiarato l’incostituzionalità di parametri troppo lontani dal valore di mercato del bene.
Occorre rilevare, sul punto, come risulti costante la tendenza dello stesso legislatore a cercare di contenere l’esborso per l’indennizzo all’espropriato, introducendo misure di riduzione e decurtazione dell’indennità da pagare rispetto al valore di mercato del bene che sono state infatti portate più volte all’attenzione della Corte costituzionale.
Preme fin da subito evidenziare come la quantificazione dell’indennità spettante al proprietario costituisce il momento più delicato dell’intero fenomeno espropriativo. Piuttosto travagliato è stato da sempre il rapporto tra l’interesse del proprietario e quello pubblico: il primo volto a vedersi corrispondere il maggior ristoro economico riconoscibile, il secondo attestato invece sulla sponda opposta del minimo impegno finanziario.
Di qui, la centralità del dibattito legislativo e dottrinale sulla quantificazione del ristoro economico spettante al proprietario colpito da un provvedimento di esproprio.
Già la risalente pronuncia della Corte Costituzionale n. 55 del 1968 evidenziava che ogni incisione operata a titolo individuale sul godimento del singolo bene, la quale penetri al di là di quei limiti che la legislazione stessa abbia configurato in via generale ai sensi dell’art. 42, co. 2, Cost. come propri di tale godimento in relazione alla categoria dei beni di cui trattisi, e annulli o diminuisca notevolmente il valore di scambio, deve essere indennizzato.
L’indennità di esproprio era determinata secondo i criteri di calcolo predefiniti dalla legge. Al riguardo la l. 359/1992 all’art. 5 bis ha introdotto un sistema di calcolo secondo cui l’indennità da versare in caso di esproprio di un terreno edificabile risultava inferiore al valore di mercato del bene. L’art. 37 T.U. 227/2001 nel fissare i nuovi criteri per l’indennità di esproprio ha fatto propri molti dei parametri stabiliti dalla legge del 1992.
Dubbi di legittimità sono sorti dalla mancata commisurazione dell’indennità al valore di mercato dei beni e sono stati portati all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Scordino c/Italia.
Nell’iter che ha condotto all’attuale assetto che individua i criteri per la determinazione dell’indennizzo, la decisione relativa alla causa “Scordino” ha fissato, in esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, alcuni principi fondamentali, primo fra tutti quello per cui l’indennizzo non è legittimo se non consiste in una somma che si ponga “in rapporto ragionevole con il valore del bene”.
La pronuncia della CEDU ha messo in rilievo come un atto della pubblica Autorità che incide sul diritto di proprietà deve realizzare un giusto equilibrio tra l’interesse generale e l’esigenza della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. Nel controllare il rispetto di tale equilibrio la Corte riconosce allo Stato “un ampio margine di apprezzamento” onde scegliere le modalità di attuazione, anche in considerazione dell’interesse generale di raggiungere l’obiettivo della legge che sta alla base dell’espropriazione.
A seguito della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte Costituzionale, pronunciandosi con sentenza n. 348 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina indennitaria - introdotta dall’art. 5 bis relativo alle modalità di computo dell’indennità di espropriazione - per violazione degli artt. 111, co. 1 e 2, e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU ed all’art. 1 del primo Protocollo della Convenzione stessa.
La stessa Corte ha sottolineato come la propria pregressa giurisprudenza con la quale aveva rigettato la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, si reggeva sul carattere meramente transitorio della disciplina, che sarebbe venuto meno dopo l’intervento del legislatore che, con l’art. 37 T.U. 327/2001, ha recepito il contestato criterio di computo dell’indennizzo.
La Corte, dunque, rileva l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis e, di conseguenza, dell’art. 37 TU 327/2001 per il fatto che l’indennità sarebbe inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati.
La lacuna creatasi nell’ordinamento a seguito della pronuncia della Consulta è stata colmata dalla Legge finanziaria per il 2008, il cui art. 2, co. 89, ha provveduto a sostituire il testo dell’art. 37, co. 1 e 2, T.U. Espr., così recependo integralmente le direttive delle Corti europea e costituzionale e stabilendo che per l’esproprio di aree edificabili l’indennità sia determinata (salvo eccezioni specifiche)nella misura pari al valore venale del bene.
In tale contesto, va ricordato come il legislatore italiano, nel predisporre il citato T.U. in materia di espropriazione, si era espressamente occupato all’art. 43 della “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, e cioè di quella che è comunemente nota come «acquisizione sanante», con lo specifico intento di ovviare alla mancanza di una base legale dell’acquisizione di un bene alla proprietà pubblica come effetto di occupazione illegittima.
A tal riguardo nel 2010 è intervenuta la decisione della Corte costituzionale n. 293 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001. La norma difatti sarebbe in contrasto, in primo luogo, con gli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 della Costituzione, in quanto essa consentirebbe la sanatoria di espropriazioni illegittime ed, inoltre, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., poichè non conforme ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte di Strasburgo, che ha ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot. 1, la prassi della c.d. “espropriazione indiretta”. Quest’ultima, come precisato dalla stessa CEDU sia pure incidentalmente, si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da “azioni illegali”, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge (appunto l’art. 43 del t.u.), in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo ‘buona e debita forma’. Da ciò si deduce che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, non è di per sé sufficiente a risolvere il grave vulnus al principio di legalità.
Dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega dalla sentenza n. 293/2010, l’acquisizione sanante è stata riproposta dall’art. 34 d.l. 6 luglio 2011 n. 98, conv. con mod. dalla legge 15 luglio 2011, che ha inserito nel D.P.R. 327/2001 l’art. 42 bis.
Tale norma reintroduce alcuni aspetti già previsti dal vecchio art. 43. Essa infatti prevede la possibilità per l’amministrazione di acquisire per scopi di interesse pubblico al suo patrimonio indisponibile un bene immobile che sia stato già occupato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità riconoscendo contestualmente al proprietario la corresponsione di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito.
Ad avviso delle S.U. della Cassazione l’art. 42 bis, riproducendo il contenuto dell’art. 43, riproporrebbe “numerosi e gravi dubbi di costituzionalità –anche per le possibili violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa- in relazione ai precetti contenuti negli artt. 3, 24, 42 e 97 Costit.; nonché di compatibilità con la normativa della Convenzione CEDU, e quindi dell’art. 117 Cost.”.
Tra i motivi di legittimità costituzionale sollevati dalle S.U. emergono:
- La mancata predeterminazione dei “motivi di interesse generale” da porre a fondamento dell’acquisizione sanante: evidente è la violazione del dettato del co. 3 dell’art. 42 Cost. che prescrive tra le condizioni legittimanti l’espropriazione la sussistenza di “motivi di interesse generale” .
- La mancata previsione di un limite temporale volto a circoscrivere l’esercizio del potere espropriativo: le S.U. osservano sul punto che la norma pone seri dubbi di contrasto con l’art. 3 della Costituzioneper il regime discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario in cui l’esposizione è temporalmente limitata all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità e il procedimento acquisitivo previsto dalla disposizione in commento che non pone limiti temporali all’acquisizione del bene immobile occupato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.
- Violazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost nella parte in cui dispone l’applicabilitàdelle regole sull’acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittimaancheai giudizi in corso per l'annullamento degli atti da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio. Ad avviso degli ermellini sarebbero, in particolare, violate le condizioni di parità davanti al giudice, che risulterebbero lese dall’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
Le principali violazioni rilevate dalle S.U. della Corte di Cassazione portano a ritenere violato lo stesso principio di legalità nella sua connotazione di clausola garante dei principi fondamentali che regolamentano la vita e il rapporto tra istituzioni e cittadini nello Stato repubblicano. Osservano le S.U. che la “legalizzazione dell’illegale”, infatti, non è consentita “neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di esso attuativo, quale è quello che disponga l’acquisizione sanante”. In tal senso si era già espressa anche la Corte Cost. nella sentenza n. 293/2010, secondo la quale“non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità”
A conclusione del ragionamento condotto alla luce dell’esame parallelo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e di quella costituzionale in materia di indennizzo espropriativo, può affermarsi con certezza che nel nostro ordinamento il legittimo sacrificio che può esser imposto in nome dell’interesse pubblico non può giunger sino alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà. Il perseguimento dell’interesse generale trova necessariamente un limite nella tutela della proprietà privata, posta a fondamento e garanzia della libertà di iniziativa economica dei cittadini. In questo esercizio di bilanciamento tra contrapposti interessi gioca un ruolo fondamentale il principio di legalità. La nostra Costituzione, ci ricorda la Corte costituzionale, riconosce il diritto di proprietà e la possibilità che essa possa essere espropriata per “motivi di interesse generale” con il limite dei “soli casi previsti dalla legge” nell’ottica di un indistinto obbligo per i cittadini di adempiere a quei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.). L’appartenenza a una comunità, la partecipazione alle sue scelte e la necessità di doverle subire laddove in contrasto con gli interessi individuali trovano la loro legittimazione nel rispetto della legge, sia da parte del singolo che dell’ente chiamato a rappresentare la collettività e gli interessi generali. La Corte costituzionale nelle pronunce appena commentate in tema di espropriazione ricorda il difficile equilibrio tra tutela dell’interesse collettivo e interesse del singolo. Prevale il primo ma a condizione che venga rispettato il principio di legalità, cardine e fondamento di un Paese che voglia affermarsi come uno Stato di diritto.