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LIBERTÀ DI SCELTA RELIGIOSA TRA IDEALI E CULTURA, IL CASO DELLA SCUOLA DI ROZZANO

by Avv. Valentina Picone on27 Gennaio 2016

La religione è una categoria concettuale che per connotazione etimologica 

(dal latino relegěre, composto dal prefisso re, ovvero frequenza, e legěre, scegliere), circoscrive la scelta entro la quale un individuo si prende cura della sua intimità attraverso un complesso di credenze e sentimenti. Ciò nonostante, la scelta sulla religione è condizionata dal contesto sociale, culturale e dalle tradizioni della famiglia (nella sua accezione più ampia), primitivo cerchio di inclusione sociale. L’ordinamento italiano, di fatto, non contempla un principio manifesto di laicità, diversamente da quanto accade (ad esempio) in Francia, dove all’art. 1 della Costituzione si legge “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale”. Il Bel Paese ha intrapreso, tradizionalmente, una strada compromissoria confermata dall’art. 7 Cost. che sancisce l’indipendenza tra Stato e Chiesa Cattolica e richiama ai Patti Lateranensi per definirne i rapporti. Ricordiamo che solo nel 1984 gli Accordi di Villa Madama soppressero la dichiarazione (contenuta nei Patti Lateranensi) riguardante la religione cattolica come la sola confessione dello Stato ma, nel contempo, continuava ad essere oggetto di insegnamento nelle scuole pubbliche elementari e secondarie, pur nel rispetto della libertà di coscienza. Il concetto di laicità, pertanto, è il prodotto di una interpretazione giurisprudenziale offerta dalla Consulta con la nota sentenza n. 203 del 1989 (e successive) dove si afferma che laicità implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, di tutte le confessioni (vedi il successivo art. 8 Cost).

Il tema della libertà religiosa, in particolare, nel campo dell’istruzione è tornato in auge a seguito di un fatto di cronaca riguardante la scelta di un dirigente scolastico di non includere i canti natalizi nel programma delle festività; si è trattato di un diniego rivolto a due mamme che avrebbero voluto insegnare canti religiosi ai bambini cristiani (cfr., Circolare n.7/DS Istituto comprensivo Statale Garofani (MI) del 28 novembre 2015). Un caso che rievoca gli stessi argomenti del dibattito che hanno accompagnato l’annosa (e mai risolta) questione sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche (e nei luoghi di esercizio delle funzioni pubbliche) sulla quale il Consiglio di Stato (con decisione n. 556 del 13 febbraio 2006) ha affermato che quel simbolo non è oggetto di culto ma espressione del fondamento dei valori civili; sul punto, anche la Corte di Strasburgo  nel caso Lautsi c. Italia (ricorso n. 30814/06) prima dichiarerà tale prassi contraria al diritto all’istruzione, alla libertà di pensiero e di religione ma nel 2011 (la Grande Camera) riconoscerà che non può considerarsi elemento di indottrinamento. Si tratta di temi sopiti e mai risolti che emergono, ciclicamente, con un bagaglio di contraddizioni e posizioni diametralmente opposte tra chi sostiene la libertà nella sua forma più ampia e chi difende la storia e la cultura italiana, tradizionalmente, protesa verso il cattolicesimo.

Fatte queste premesse, la domanda che ci poniamo è la seguente: l’esclusione ad opera di un dirigente scolastico circa la programmazione dei canti natalizi religiosi proposti da alcuni genitori, rispetta la libertà religiosa negativa ovvero impedisce l’esercizio di quella positiva?

L’Italia non è uno Stato confessionale ma nemmeno può dirsi indifferente rispetto alla religione, principalmente, cattolica; questa affermazione non è ideologica ma, semplicemente, oggettiva. In primis, suffragata dal già citato richiamo ai Patti Lateranensi che, al di là del vivace dibattito sulla loro natura (legge ordinaria, speciale o costituzionale?), attribuiscono un rilievo costituzionale ai rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica, diverso rispetto al richiamo per legge alle intese con le altre confessioni. Questo non significa discriminazione tra confessioni religiose, ma scelta legittima che qualsiasi ordinamento democratico può, o meglio, deve fare in funzione dei bisogni e delle esigenze della collettività che rappresenta. La religione cattolica (in termini politici e giuridici), evidentemente, rappresenta un interesse positivo, che appartiene al patrimonio identitario italiano. Non si trascuri un altro fatto ovvero che fino al 2000, l’art. 402 c.p. (dichiarato incostituzionale con sentenza n. 508 del 2000) contemplava una protezione ad hoc in favore delle offese alla religione (cattolica) dello Stato in chiave sicuramente anacronistica ma, storicamente, comprensibile. Questo significa che i simboli religiosi (cattolici e non) come un crocifisso ovvero un canto (natalizio), in assenza di prescrizioni possono essere parte integrante dell’esercizio delle funzioni pubbliche come possono non esserlo.

Fatte queste premesse, passiamo all’esame dell’insegnamento della religione cattolica.  L’art. 33 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di dettarele norme generali sull’istruzione (riservate alla competenza esclusiva dello Stato e concorrente) che confluiscono nel Piano dell’offerta formativa, un documento che riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, elaborato dal collegio dei docenti, tenuto conto delle proposte anche dei genitori (cfr. D.P.R. del n. 275 del 1999 per le scuole secondarie superiori e D.lgs. n. 59 del 2004per la scuola primaria). La definizione del piano dell’offerta formativa è, quindi, un risultato di più direttive: in primis le norme generali sull’istruzione, tra cui dobbiamo comprendere anche l’art. 9 degli Accordi di Villa Madama attraverso cui laRepubblica riconoscendo il valore della cultura religiosa come patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica (nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado), pur sempre nel rispetto del diritto di scegliere se avvalersi di detto insegnamento; queste aspetti generali del P.O.F., si adattano poi alle esigenze del contesto culturale e sociale, frutto di una sinergia di proposte e pareri formulati non solo dal corpo docente ma anche da altri attori sociali come associazioni e genitori; invero, proprio quest’ultima categoria deve essere considerata, in quanto espressione della volontà di istruzione fondamentale che appartiene a chi esercita la potestà genitoriale, secondo proprie convinzioni religiose e filosofiche; anzi, lo stesso art. 2 Protocollo addizionale CEDU, sancisce che tale diritto non può essere rifiutato a nessuno sia a coloro che professano la religione cattolica che non; che questo diritto, nel nostro ordinamento, appartenga a tutti è dimostrato dalle intese che l’Italia ha siglato con altre confessioni, ad esempio, con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane: il comma 4 dell’art.11, Legge 8 marzo 1989, n. 101 stabilisce che La Repubblica assicura il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici in ordine allo studio dell’ebraismo. Ultimo tassello è il DPR 24 giugno 1986 n. 539 sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche materne che all’art. 5 ricomprende tra le scelte dell’attività dei valori religiosi anche la musica e il canto (ascolto, esecuzione di canti religiosi).

Questa breve digressione normativa, conferma non tanto la laicità manifesta dello Stato Italiano, quanto piuttosto la scelta politica e culturale circa la preferenza della religione cattolica al punto che, sia parte integrante del piano di istruzione pubblica. Preferenza non vuol dire discriminazione ovvero imposizione perché, da un lato, esiste la libertà di non avvalersi di quell’insegnamento e, dall’altro, esistono strumenti di partecipazione anche per le altre confessioni che vanno dalla possibilità di stringere intese con lo Stato all’opportunità da parte dei genitori di proporsi nel dialogo sul piano formativo.

A parere di chi scrive, piuttosto che affogare nelle sabbie mobili della demagogia e gridare alla libertà del muro bianco nelle scuole italiane, basterebbe guardare oltralpe, per scoprire che in Francia la legge n. 2010-1192, ha sancito il divieto di coprire il volto nei luoghi pubblici che – di fatto – limita l’utilizzo di un simbolismo religioso come il burqa; nondimeno, la Corte di Strasburgo chiamata ad esprimersi in merito (cfr., S.A.S. c Francia, ricorso n. 43835/11) ne ha riconosciuto la legittimità in quanto in linea con il valore del vivere insieme, patrimonio storico-culturale dei paesi europei.

Cultura democratica significa rispetto della libertà altrui; nondimeno, la cultura è espressione del patrimonio identitario di un popolo, di conseguenza, il diniego di un dirigente scolastico circa l’inclusione dei canti religiosi natalizi deve trovare una giustificazione diversa dal rispetto della religione altrui o dalle gravi congiunture internazionali.

L’unica strada che, a parere di chi scrive, sembra percorribile per evitare qualsiasi tipo di discriminazione è l’opportunità: dove c’è opportunità c’è scelta, dove c’è scelta c’è libertà.

Ultima modifica il 03 Febbraio 2016